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COVID

Governo in ritardo/ Le riforme dimenticate: il vero virus per l’economia

Articolo riservato agli abbonati
25 Novembre 2020 (Lettura 4 minuti)

Ammettiamolo: ci siamo immaginati tutti almeno una volta nella nostra vita nei panni di un commissario tecnico della Nazionale, di un esperto scientifico o del presidente del Consiglio. Quando capita a me, un po’ meno ambiziosamente, mi vedo nel ruolo di ministro dell’Economia. E la prima immagine che mi viene in mente non è la scrivania di Quintino Sella, bensì è il coniglio bianco di Alice nel paese delle meraviglie: una persona sempre di corsa e sempre in ritardo.

Esattamente così, infatti, mi sentirei in questi mesi frenetici al pensiero che ogni giorno che passa è tempo in meno da dedicare alle grandi decisioni che devono essere prese. Tra le tante, quella più cruciale riguarda sicuramente la preparazione e il destino del Recovery Fund. 

Sono già passati oltre quattro mesi dallo storico accordo europeo sul Recovery Fund, e ormai quasi tre da quando il governo ha cominciato a lavorare su questo dossier. A parte qualche annuncio iniziale, un lungo documento generico, impegni solenni con il parlamento e la popolazione, nonché richiami evocativi nei documenti di bilancio ufficiali, al momento non sappiamo molto del piano, che ci auguriamo ambizioso. Né le ultime dichiarazioni del premier Conte hanno aggiunto elementi di novità. Cominciamo da quello che si sa. 

A parole, il governo ha intenzione di utilizzare tutte le risorse a disposizione diqui al 2023, stimate in circa 209 miliardi tra trasferimenti a fondo perduto (82) e prestiti a tasso agevolato (i restanti 127). La legge di Bilancio, che la Camera ha cominciato a valutare, contiene un anticipo “fuori bilancio” triennale di circa 120 miliardi complessivi, proprio in prospettiva dei fondi europei. 

Non è un impegno da poco. Soprattutto alla luce di due fatti, che dovrebbero entrambi mettere una certa pressione al governo stesso ma che, al contrario, non sembrano preoccupare eccessivamente. Il primo è un ritardo sulla presentazione del piano italiano. Non è un ritardo formale, sia chiaro. L’Italia ha effettivamente ancora tempo per presentare il suo programma organico alla Commissione europea. Ma perché non se ne parla pubblicamente? Perché non esiste un ampio dibattito su queste misure? I timori sono, appunto, che queste misure ancora non siano abbastanza definite da essere presentate e discusse, migliorate ove possibile, magari anche cambiate con il contributo di tutte le forze politiche. In un periodo difficile come questo, in cui il contributo di tutti sarebbe davvero necessario, questa segretezza ha davvero poco senso. Da un governo marcato Cinquestelle ci si aspettava ben altro atteggiamento: che fine hanno fatto i dibattiti pubblici, lo streaming, la trasparenza delle istituzioni? È questo mistero che fa temere un certo ritardo. 

Il secondo è invece un ritardo effettivo, sempre del nostro Paese. Uno degli elementi di cosiddetta condizionalità per l’erogazione dei contributi è il rispetto delle raccomandazioni espresse dalla stessa Commissione negli ultimi anni. Raccomandazioni, è ovvio, che il nostro Paese si era già impegnato a seguire indipendentemente dall’esistenza del Recovery Fund e principalmente per evitare l’apertura di una procedura di infrazione per deficit eccessivo. Di cosa si tratta? Nulla di nuovo, appunto. E, soprattutto, nulla che davvero non serva all’Italia. Copio e incollo dai documenti ufficiali della Commissione: rafforzare la capacità del sistema sanitario, attuare pienamente le passate riforme pensionistiche al fine di ridurre il peso delle pensioni di vecchiaia nella spesa pubblica e creare margini per altra spesa sociale e spesa pubblica favorevole alla crescita; intensificare gli sforzi per contrastare il lavoro sommerso; sostenere la partecipazione delle donne al mercato del lavoro; migliorare i risultati scolastici, anche mediante adeguati investimenti mirati, e promuovere il miglioramento delle competenze, in particolare rafforzando le competenze digitali; migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione, in particolare investendo nelle competenze dei dipendenti pubblici, accelerando la digitalizzazione e aumentando l’efficienza e la qualità dei servizi pubblici locali ridurre la durata dei processi civili in tutti i gradi di giudizio.

Cosa è stato fatto di tutto questo? Come è possibile affermare che il nostro Paese non sia in ritardo su questi temi? E non vale nemmeno rispondere che c’è un’emergenza ben più grave da risolvere prima, perché questi temi segnano un’emergenza ormai atavica, ben più duratura e per certi versi maggiormente dannosa di quella sanitaria che stiamo vivendo. Sono le patologie che rendono il nostro sistema economico più esposto a questo e ad altri virus, metaforicamente parlando, che non ci permetteranno di ripartire come gli altri Stati quando questo maledetto covid sarà domato. Che, in ultima analisi, mettono a rischio la nostra stessa capacità di ottenere fondi dall’Unione se non avremo dimostrato che ci stiamo impegnando davvero e seriamente in questa direzione. Eppure, è possibile affermare che siamo partiti, tra mille incertezze, col piglio giusto. Nel pieno dell’emergenza sanitaria, una misura come il super bonus edilizio del 110% era la misura shock che a lungo era stata richiesta, anche da queste colonne. Rilancio dell’attività economica, efficientamento energetico, recupero degli immobili esistenti senza consumare altro suolo pubblico, emersione di lavoro sommerso. Eppure, sei mesi dopo la sua approvazione, cittadini, banche e imprese navigano ancora a vista, in attesa di quello che ogni volta avrebbe dovuto essere l’ultimo regolamento attuativo. Un po’ come la questione dei ristori, si annunciano e si approvano ma prima di giungere a destinazione campa cavallo.

Senza un cambio di passo, difficilmente potremo affermare ancora a lungo di non essere in ritardo. Ma, a quel punto, sarà ormai troppo tardi.
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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