Paolo Pombeni
Paolo Pombeni

I nemici del 41 bis/ Quelle analogie con la strategia mafiosa del 1993

di Paolo Pombeni
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Sabato 4 Febbraio 2023, 00:22

È credibile che la mafia si serva di un terrorista (pasticcione) che appartiene a coloro che si definiscono “anarchici” senza avere conoscenza di cosa è storicamente l’anarchia (movimento di protesta politico sociale su cui si può discutere, ma non bombaroli e attentatori alla vita altrui) per rilanciare una battaglia che hanno perso alla metà degli anni Novanta del secolo scorso? Sì, se ci prendiamo la briga di rileggere un po’ di storia.


Il 41 bis fu ideato da Falcone per scardinare le linee di comando della mafia, i cui capi conservavano il loro ruolo potendo nel caso di cattura e condanna continuare dal carcere a guidare le loro organizzazioni. Questo ovviamente rafforzava l’immagine di Cosa Nostra come una specie di stato alternativo, che manteneva le sue catene di comando anche in presenza di sconfitte che dovevano apparire come contingenti. 


Fin dalla fine del 1991 la mafia aveva deciso di mostrare i muscoli, proprio per confermare, davanti all’opinione pubblica oltre che ai suoi accoliti e fiancheggiatori, la sua “potenza”. Questa impostazione, in quel momento ancora a livello di pianificazione, entrò in fase di attuazione dopo che il 30 gennaio 1992 la Cassazione confermò la condanna di Totò Riina all’ergastolo. Da questo momento in poi non tanto l’uso della violenza conobbe un continuo crescendo. Si parte dall’omicidio del politico Salvo Lima il 12 marzo 1992 e il 4 aprile tocca al maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli, soprannominato “il mastino” per la sua capacità nel contrasto della criminalità organizzata. Il colpo grosso arriva il 23 maggio con la strage di Capaci in cui vengono fatti saltare in aria Falcone con la moglie e la sua scorta, seguito il 19 luglio dall’attentato in cui perdono la vita Paolo Borsellino e la scorta. 


I CINQUE MORTI
Tutte le azioni di questa fase vengono firmate con la sigla “Falange armata”. Evidentemente la mafia vuole mascherare la sua azione sotto una finta ripresa del terrorismo politico. Segue la fase stragista vera e propria, dopo che il 15 gennaio 1993 è arrestato Riina. Gli eventi sono ancora nella memoria di chi ha vissuto quegli anni: 26 maggio 1993, strage di via dei Georgofili a Firenze; 26 luglio bombe alle chiese di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro a Roma (Giovanni Paolo II andrà a visitarle); quello stesso giorno autobomba in via Palestro a Milano (muoiono un vigile urbano, tre vigili del fuoco, un clochard marocchino che dormiva su una panchina). E si cerca di alzare ancora il livello fino a tentare il 24 gennaio 1994 un attentato allo stadio Olimpico a Roma, impresa che per fortuna fallirà.


Perché ricordare questa storia? È ormai acclarato che il terrorismo stragista aveva come obiettivo premere sullo Stato perché venisse ridotto fortemente l’uso del 41 bis. Di fatto il ministro della Giustizia, Giovanni Conso che era succeduto nel ruolo a Claudio Martelli, il 21 febbraio 1993 revocò il regime di 41 bis a ben 140 elementi mafiosi detenuti. Senza perderci nei romanzi sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, si può semplicemente registrare che Conso in audizione alla Commissione antimafia l’11 novembre 2010 dichiarò di aver preso quel provvedimento per evitare il proseguimento della strategia bombarola scatenata dalla mafia. Chiarì di averlo fatto per iniziativa personale, avendo solo sentito il ministro dell’interno Mancino, senza aver partecipato né direttamente né indirettamente ad alcuna trattativa con Cosa Nostra.


Oggi lo sfruttare l’appeal che in vari strati sociali può avere la vicenda di un “detenuto politico” (che, ribadiamolo, tale non è da nessun punto di vista) il quale usa lo sciopero della fame come arma di pressione psicologica sulla pubblica opinione può replicare, almeno così credono i mafiosi, il percorso del 1993.
Attualmente la mafia in quanto tale non sembra più interessata alle dimostrazioni esasperate di violenza contro lo Stato come era caratteristica dei corleonesi. Uno “scontro a fuoco” e a tutto campo con lo Stato nuocerebbe ai suoi affari che sembra non essere disposta a mettere a rischio per difendere i vecchi capi in carcere. Bisogna dunque affidarsi a qualcuno che si crede possa “incendiare” l’ordine pubblico facendo leva su quanto rimane in varie frange del paese della stagione di una certa contestazione: quella che vedeva e vede dappertutto violenza di stato, militarizzazione contro le libertà individuali, repressione di chi non accetta le regole “borghesi”. Sono componenti marginali, ma che ancora esistono in una società inquieta, affamata di proteste nichiliste, che vuole solo gesti eclatanti e non accetta un lavoro duro per superare le indubbie difficoltà di questa fase storica.


Ci vuole la massima attenzione per evitare il successo di questa strategia di coloro che vogliono disarticolare il nostro sistema sociale: lo facciano per interessi di criminalità organizzata o per fughe nel mito, stupido e antipolitico, della violenza rigeneratrice comunque a quello mirano. Non lo si può consentire.
 

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