Alessandro Campi
Alessandro Campi

Cosa serve al Paese/ Ma i veri “responsabili” non pensano alle poltrone

di Alessandro Campi
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Giovedì 28 Gennaio 2021, 00:10

Più volte s’è detto in questi giorni che gli italiani, in maggioranza, non hanno capito e non capiscono il senso della crisi istituzionale che ha portato alle dimissioni di Giuseppe Conte. Da qui l’accusa specifica a Matteo Renzi, che della crisi è stato l’architetto e l’esecutore, di aver agito in modo, al tempo stesso, incomprensibile e irresponsabile. Da qui l’accusa generale alla classe politica di trastullarsi con i suoi giochi di palazzo e di non pensare ai problemi degli italiani in un momento tanto tragico per la nazione.

In realtà, la stessa cosa potrebbe probabilmente dirsi per tutte le crisi di governo che hanno scandito la storia dell’Italia repubblicana. Volute dai partiti o dai loro leader per motivi che anche allora, nelle diverse occasioni, debbono essere apparse alla gran parte dei cittadini inspiegabili o, nella migliore delle ipotesi, inopportuni e dunque non rispondenti agli interessi della collettività.

Per quale motivo reale Bossi, nel dicembre 1994, affossò il primo governo Berlusconi? Perché Bertinotti, nell’ottobre 1998, ritirò l’appoggio del proprio partito al primo governo presieduto da Prodi decretandone la caduta? Perché Salvini si è affondato da solo, insieme al governo giallo-verde che aveva così fortemente voluto, nell’estate del 2019? E che dire di quando Matteo Renzi (sempre lui!) nel febbraio 2014 costrinse Enrico Letta alle dimissioni con l’obiettivo di far nascere un nuovo esecutivo guidato da lui stesso? In queste come nelle altre crisi i politici hanno pensato solo alle loro convenienze, personali e partitiche, o anche agli interessi degli italiani?

L’antipolitica come sentimento di massa radicatosi nelle pieghe della nostra società forse nasce proprio da qui: dal fatto che dal 1946 ad oggi abbiamo avuto ben 66 crisi di governo, durate in media 34 giorni l’una, che non solo spesso sono scoppiate senza che i cittadini ne comprendessero le motivazioni effettive e la necessità, ma dalle quali altrettanto spesso sono scaturiti, se non elezioni anticipate, governi effimeri e di corto respiro politico, peggiori di quelli che li avevano preceduti e dunque, nella sostanza, inutili se non dannosi.

E veniamo all’oggi. La crisi ormai c’è, formalizzata nelle mani del Presidente Mattarella due giorni fa. Darne la colpa al solo Renzi lascia il tempo che trova, visto che in realtà il malessere verso l’operato del premier Conte era trasversale e durava da alcuni mesi. E se il primo è apparso protervo e spregiudicato, il secondo si è comportato a sua volta in modo ora arrogante ora terribilmente ingenuo. Senza dimenticare che la politica ha dinamiche che per il fatto di apparire poco chiare a chi le osserva dall’esterno, ovvero al cittadino normale o qualunque, non vuol dire che non abbiano una loro intrinseca razionalità. Ma non è questo il punto: qualunque cosa abbiano capito gli italiani delle vicende in corso, quale che sia il loro personale giudizio su Conte, Renzi e gli altri protagonisti della crisi, ciò che conta – a questo punto della storia – è che da essa possa scaturire qualcosa di utile per il Paese. Il che significa, banalmente, un governo sperabilmente migliore – cioè più intraprendente e dinamico, più attivo e propositivo, più autorevole e rappresentativo, meno ingessato e litigioso – di quello appena caduto. 

In questa fase ancora magmatica (sono iniziate ieri le consultazioni al Quirinale) sono diverse le soluzioni possibili: dal Conte Ter con Renzi (sostenuto o meno dai Responsabili) al Conte Ter senza Renzi (con l’appoggio dei soli Responsabili), dall’esecutivo istituzionale o di scopo o di larghe intese (comunque politicamente connotato) al governo puramente tecnico. Oltre ovviamente alla soluzione estrema delle elezioni anticipate, che nell’attuale contesto, fortemente condizionato dall’emergenza pandemica, paiono però più lo spauracchio di alcuni e l’auspicio di altri che una possibilità reale.

Come spesso capita in situazioni del genere, è possibile che dopo trattative per definizione snervanti e non sempre condotte alla luce del sole partiti e gruppi parlamentari si accordino su una formula capace di garantire al governo nascente la necessaria base numerica.

Ma viene naturale chiedersi, proprio a causa della difficilissima e per certi versi drammatica congiuntura nella quale siamo immersi (e che potrebbe durare ancora a lungo), se ciò che serve al Paese in questo momento è un governo che, rispetto al precedente, risulterebbe più forte solo in virtù di una più ampia maggioranza parlamentare. 

Da giorni si stanno facendo calcoli d’ogni tipo sui voti che Conte, se dovesse ottenere un reincarico, potrebbe raggranellare nelle Aule dopo il suo appello a costituire un nuovo esecutivo d’ispirazione autenticamente europeista. Da giorni non si parla altro che di senatori disposti a cambiare casacca, della nascita di un nuovo pseudo-partito centrista che dovrebbe fungere da contenitore politico per i cosiddetti “costruttori”, ma davvero sfugge il nesso tra questa che chiameremo la “democrazia del pallottoliere” e le reali urgenze del Paese, tra il formalismo delle cifre e delle soglie numeriche e la sostanza dei problemi che l’Italia e gli italiani dovranno sempre più affrontare nei prossimi mesi (a partire dalla sempre più grave crisi economica ed occupazionale e senza contare la pandemia sempre dilagante).

E’ stato proprio il Conte dimissionario a invocare come sbocco della crisi un governo di salvezza nazionale. L’ha fatto pensando che dovrà essere sempre lui a guidarlo e che per farlo nascere sarà sufficiente superare, pescando dove capita, la fatidica soglia dei 161 senatori. Ma se si prende sul serio il suo invito, se si guarda alla crisi non dal punto di vista degli equilibri (e interessi) partitici ma degli italiani e delle loro legittime aspettative, appare chiaro che è ben altra la formula di governo che si dovrebbe cercare di realizzare. 
Prendiamo l’impegno progettuale e gestionale imposto dal Recovery Plan. Dal modo come saranno impiegate le sue risorse dipende – come ossessivamente ci viene ripetuto – il futuro del Paese per i decenni a venire. Stiamo parlando del destino di un’intera comunità: per realizzare al meglio questo ambizioso piano di rilancio, senza ritardi e sprechi, non si dovrebbe allora pensare ad un fronte comune, ad una condivisione delle responsabilità fra tutte le principali forze politiche, considerando che ognuna di esse rappresenta segmenti decisivi della società italiana? Non è esattamente questo il momento per operare politicamente – sinistra, centro, destra – in una prospettiva unitaria e solidale, per mostrarsi tutti seriamente e autenticamente “responsabili”, per dare un senso pratico ai concetti di “bene comune” e di “interesse nazionale” che anche in queste ore spesso tornano, ma come puro orpello retorico, nei discorsi dei nostri politici? 

Se gli italiani, come si dice non senza ragione, non hanno capito perché è scoppiata la crisi, ancora meno capirebbero (e apprezzerebbero) una soluzione di governo che dovesse apparire poco più che una riedizione di quello appena caduto (numero più, numero meno). A cosa serve, nella situazione senza precedenti che stiamo vivendo, un Conte Ter appena rinforzato o un governo giallo-rosso appena allargato? E’ la domanda che molti in queste ore si stanno facendo, e alla quale bisognerebbe dare risposta sul filo del buon senso, del pragmatismo, del senso di responsabilità e di un autentico amor di Patria.
 

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