Giuseppe Vegas
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Come fare le leggi/ L’interesse delle lobby e quello dei cittadini

di Giuseppe Vegas
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Sabato 7 Gennaio 2023, 00:19 - Ultimo aggiornamento: 00:20

Il terremoto che si è prodotto in conseguenza della vicenda del cosiddetto Qatargate, dove risultano indagati niente meno che una vicepresidente del Parlamento, due europarlamentari ed alcuni funzionari parlamentari, soggetti cioè che istituzionalmente dovrebbero tenere i rapporti tra gli eletti e gli elettori ed i rappresentanti dei gruppi di interesse, ha scosso fortemente l’opinione pubblica. L’episodio ha riportato all’attenzione il tema di come si fanno le leggi e in genere su quali basi conoscitive si reggono le scelte pubbliche.
La questione non è nuova. Già nell’Ottocento, il cancelliere tedesco Bismarck invitava a non chiedersi mai come si confezionassero le leggi e le salsicce, e da allora non è cambiato molto. Si è riparlato della necessità di redigere albi dei lobbisti, degli individui o delle associazioni cioè che possono avere accesso ai rappresentanti delle istituzioni, o la tenuta di registri degli incontri. Tutti sistemi che possono essere utili, ma potrebbero anche impedire di utilizzare qualcuno di quegli ingredienti che rendono prelibate alcune salsicce e non altre.

Ma partiamo dall’inizio. Come si scelgono i temi meritevoli di un intervento pubblico? Come si individua la finalità di tale intervento? E infine, come si mediano gli interessi che gravitano sulla materia che si intende disciplinare? I metodi utilizzabili sono sostanzialmente tre. Quello della saggezza del sovrano, quello dell’efficienza della burocrazia e quello della dialettica con i cittadini e le loro formazioni sociali. Al potere illuminato del sovrano già non si credeva più duemila anni prima di Cristo, all’epoca del re babilonese Hammurabi, che non a caso dovette redigere il primo codice delle leggi. E al giorno d’oggi chi esercita un potere incontrastato decide certo più rapidamente, ma non è esente da errori. Solo a titolo di esempio, si veda il caso della Cina alle prese con il Covid.

Quanto alla burocrazia, la questione è più complessa. Gli apparati pubblici rivestono la duplice funzione di individuare i reali bisogni della collettività e contemporaneamente di suggerire ai vertici politici la via, se del caso, per soddisfarli e per fissarne concretamente modalità e limiti. Non a caso gli uffici ministeriali dispongono di dati certificati relativamente ai titolari di prestazioni a carico dell’erario, del totale della spesa o dell’entità e della ripartizione delle entrate di Stato ed enti locali. Dati imprescindibili per qualunque decisione. Tuttavia, anche ove sia possibile usufruire di apparati capaci e preparati, non si può far finta di ignorare la profonda differenza che esiste nelle diverse finalità che ispirano l’azione di politici e burocrati. Mentre i primi, per conservare il potere necessitano di essere rieletti e quindi si danno da fare per cercare di accontentare in tutti i modi gli elettori, i secondi, per sopravvivere ai cambi di governi e maggioranze, agiscono per diventare insostituibili. Essi dunque tenderanno a risolvere i problemi che devono fronteggiare, reali o fittizi che siano, attraverso il rafforzamento delle loro competenze, anche mediante l’espediente di ingigantire i loro apparati e di dotarli di un crescente numero di dipendenti, non necessariamente correlato al miglioramento delle condizioni di vita generali. Come si può notare in occasione di qualsiasi riforma, che viene sfruttata per creare nuovi enti o aumentare il numero dei dipendenti. Il caso dei “navigator” per dare corpo al reddito di cittadinanza ne è esempio emblematico.

Ecco allora che non resta che la terza via. Quella più puramente democratica, che è stata percorsa, in una prima ma lunga fase, con lo strumento dell’istituzione dei parlamenti, cui era affidato il compito di mediare tra gli interessi dei cittadini votanti e quelli del sovrano.

Tuttavia, in una fase successiva, quella che stiamo attraversando, la crescente complessità anche tecnica dei problemi che investono il mondo, combinata con la correlata espansione della mano pubblica e degli interventi finanziari degli Stati, ha provocato l’effetto di rendere anche i parlamentari non sempre in grado di comprendere ed interpretare compiutamente i fenomeni evolutivi della società e i suoi reali bisogni. Da qui la necessità di disporre di adeguati strumenti che, ricordando Einaudi, consentano di “conoscere per deliberare”.

Conoscenza che occorre conseguire anche ottenendo dati e valutazioni su specifiche materie da parte di cittadini, imprese ed organizzazioni rappresentative di interessi. Deliberazione da parte di chi esercita un potere pubblico che molto spesso nasce da una efficace mediazione tra gli obiettivi di governo e gli interessi e i desideri che provengono dai rappresentanti della società civile. Si tratta pertanto di interlocuzioni non solo legittime, ma molto spesso necessarie, che possono tuttavia aprire la porta, come è accaduto, ad episodi di corruzione. Per il semplice fatto che le lobby in genere dispongono di strumenti di persuasione molto più potenti di quelli dei semplici contribuenti, che possono utilizzare solo il voto, per definire la misura dell’intervento ed anche, o forse soprattutto, per farlo decidere. 

Il caso delle deduzioni e detrazioni fiscali - ne sono state contate complessivamente 68 solo per l’Irpef - costituisce un classico esempio del prevalere di interessi particolari su quelli generali: con i circa 100 miliardi di mancate entrate che ne derivano, si sarebbero ben potute tagliare le aliquote per tutti.
Il tema di oggi è dunque se lo strumento della trasparenza dei sistemi di comunicazione tra portatori di interessi e decisori sia quello più adatto per garantire al meglio il perseguimento dell’interesse pubblico nelle scelte e la maggiore efficacia nello scongiurare il possibile compimento di reati.

In proposito si deve notare che, mentre un efficiente controllo delle entrate personali di chi riveste incarichi pubblici o dei mediatori può rappresentare uno strumento potente, anche di dissuasione, salvarsi l’anima affidandosi alle presunte caratteristiche salvifiche di semplici dichiarazioni può risultare inefficace o anche dannoso. Inefficace, perché il sistema può essere facilmente eluso. Dannoso, perché, anche nel mondo social di oggi, trattare riservatamente una questione controversa può costituire l’unica via per risolverla con generale soddisfazione. 

Per due motivi. In primo luogo perché se una parte è tenuta ad enunciare pubblicamente i propri obiettivi, questi diventano automaticamente irrinunciabili e non modificabili, precludendo la possibilità di raggiungere una soluzione condivisa. In secondo luogo, perché il sale della democrazia è costituito dalla conciliazione degli interessi contrapposti, in una parola dal compromesso, che si riesce ad ottenere solo se ciascun interlocutore è in grado di rinunciare ad una parte delle proprie aspirazioni perché è nelle condizioni di non sentire sulle proprie spalle il peso dei suoi sostenitori. Basta far correre la memoria a quanti accordi in materia di lavoro, dalla scala mobile alla riforma delle pensioni, si sono chiusi con un passo indietro da parte di ognuno dei contendenti, che ha consentito di accontentare tutte le parti, risolvere la controversia in corso ed evitare probabili scontri, anche violenti.

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