Francesco Grillo
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Oltre le frontiere/Il clima che cambia, una calamità per tutti

di Francesco Grillo
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Martedì 28 Marzo 2023, 00:44 - Ultimo aggiornamento: 22:40

Le Maldive sono per molti il pezzo del globo che più si avvicina all’idea stessa di paradiso. E, tuttavia, il paradiso sta scomparendo. Letteralmente. Fu il presidente Ibrahim Sohil a denunciare qualche mese fa all’ultima Conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (Cop) che se il mondo non trova il modo di fermare il riscaldamento globale entro 1,5 gradi (rispetto alle medie che si registravano prima dell’ultima rivoluzione industriale), gli atolli saranno sommersi dall’Oceano entro pochi decenni. L’ultimo rapporto del gruppo di studio mondiale (Ipcc) che studia il fenomeno conferma che il rischio di una catastrofe è ormai quasi una certezza. E, tuttavia, rimane ancora un’ultima speranza: ce la giocheremo nei prossimi sette anni. Un ruolo fondamentale è affidato proprio a quel Vecchio Continente dal quale vengono più della metà dei turisti che sono disposti a spendere fino a 15.000 euro per una settimana nel paradiso che rischiamo di perdere.


Il documento che fa la sintesi di tutto il lavoro svolto dall’Ipcc dal 2015 rafforza tre messaggi che devono guidarci sul clima. Innanzitutto il rapporto calcola che possiamo immettere ancora nell’atmosfera non più di 400 miliardi di tonnellate di anidride carbonica (CO2) prima di condannarci a sorpassare la linea rossa oltre la quale certe alterazioni del clima (compreso l’innalzamento del livello degli oceani) diventano irreversibili: attualmente ne immettiamo quasi 40 ed entro il 2029 potremmo aver già esaurito l’ultimo margine.

In secondo luogo, il rapporto dice che esiste una sfortunata correlazione: i Paesi che meno hanno contribuito al disastro (tutta l’Africa) sono quelli più vulnerabili alle sue conseguenze e ciò apre una gigantesca questione di giustizia. Infine, c’è anche una buona notizia: il costo della produzione di energia da fonti rinnovabili è ormai inferiore a quello unitario della generazione da petrolio e gas. Sono il sole e il vento ad essere nettamente la nostra migliore speranza per riuscire nell’impresa di tagliare drasticamente le emissioni, ma ci vuole ancora tempo prima che tale produzione diventi dominante.


L’Europa è, in realtà, l’unica regione del mondo che ha già cominciato quell’inversione che nei prossimi anni deve diventare netta. Dal 1990 abbiamo ridotto la nostra produzione di gas serra di un quarto, mentre nel resto del mondo è aumentata del 50%. L’obiettivo del patto verde (Green Deal) dell’Unione è di tagliare di un ulteriore 30% entro i prossimi sette anni, il che significa aumentare di quattro volte la velocità con la quale il Continente si sta allontanando dall’economia fossile. La domanda però è se stiamo facendo abbastanza per evitare una catastrofe che ci colpirebbe anche se riuscissimo a svolgere puntualmente il compito che ci siamo assegnati, cosa non facile visti i costi ingenti che la transizione impone.
In realtà, il green deal andrebbe rafforzato in due direzioni.

Innanzitutto, obiettivi più stringenti, con una tempistica che sia articolata per anno e Paese ed una maggiore flessibilità – invece – per ciò che concerne i mezzi utilizzati per arrivarci: è lo stesso Ipcc che indica che non ci sono sufficienti dati per fare dell’automobile elettrica il totem della transizione. 


In secondo luogo, all’Unione non può essere sufficiente il patto stretto tra i suoi partner. Se l’Europa è attesa da uno sforzo titanico, il mondo per salvarsi deve riuscire in un’impresa ancora maggiore: gli scienziati calcolano che è necessario che le emissioni globali calino del 21% entro il 2030 (dopo un aumento che dura senza interruzioni da due secoli) anche solo per stare sotto un incremento già disastroso di 2 gradi delle temperature. Per riuscirci è necessario che l’Europa recuperi – sul tavolo ambientale – una leadership che ha perso altrove. Facendoci da mediatori tra Stati Uniti, Cina e India che sono le potenze che decideranno la partita: potenze che hanno un formidabile vantaggio competitivo sulle tecnologie, ma anche un fattore di freno nella diffidenza crescente che le divide e che l’Europa deve poter superare. Ad esempio, disegnando uno strumento di compensazione dei danni e di condivisione degli strumenti che funzioni a livello planetario.


Il cambiamento climatico non è solo una delle più grandi minacce che la civiltà umana abbia mai affrontato. È anche paradossalmente la più potente narrazione che unisce nella stessa partita Paesi diversi, perché se i ricchi fallissero il clima li colpirebbe con migrazioni bibliche da luoghi senza più acqua. Che unisce generazioni diverse perché la sopravvivenza di chi oggi non vota, dipende – come mai prima – dalla responsabilità di genitori e nonni. Che connette la parte più sofisticata del progresso tecnologico con il “tempo che fa” in piccoli borghi italiani sospesi tra spopolamenti definitivo e sorprendenti rilanci.


Il paradiso delle Maldive è forse davvero perso. Appartiene ad un’epoca che sta finendo. Basti dire che il volo di un solo turista da Milano alle Maldive produce una tonnellata di anidride carbonica: più di quanto non ne sia generata in un anno da uno degli abitanti dell’atollo. Sopravviveremo ad un progresso che pure ci ha fatto fare un gigantesco salto in avanti, solo immaginando tutti insieme – governi, cittadini, imprese – un modo diverso per proteggere i mille paradisi di una terra progettata per ospitarci.


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