Alessandro Campi
Alessandro Campi

Stallo Lega e FI/ Il dilemma centrodestra e l’energia della Meloni

di Alessandro Campi
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Mercoledì 18 Maggio 2022, 23:59

La politica mondiale corre e cambia, il centrodestra italiano resta immobile. L’illusione è che l’unità tra le forze che lo compongono possa ricavarsi dalla riproposizione di vecchie formule programmatiche e di schemi d’alleanza superati, nemmeno dalla storia, ma dalla semplice cronaca.
L’incontro dell’altro giorno tra Silvio Berlusconi, Giorgia Meloni e Matteo Salvini non è stato un vertice, ma un incontro nervoso, interlocutorio dopo il grande freddo dei mesi scorsi e al dunque inconcludente, secondo molti resoconti. Non si è sottoscritto alcun accordo strategico, al massimo s’è siglata una tregua. Peraltro fragile e precaria, come hanno dimostrato i commenti del giorno dopo, assai pessimisti, degli stessi protagonisti.
A partire dalla Meloni, che sostenuta dai sondaggi che la danno primo partito d’Italia continua a riproporre la questione per lei dirimente della leadership: chi comanda nella coalizione con gli attuali rapporti di forza? Nessuno le ha ancora risposto.


Ma la questione non è solo numerica o di ambizioni personali, le vere distanze sono quelle politiche. Fratelli d’Italia ha scelto la strada dell’euro-occidentalismo in funzione anti-Putin, lasciando agli altri due partiti di barcamenarsi, in modo spesso ambiguo, tra neutralismo, appelli alla pace e realpolitik energetica. La guerra divenuta un discrimine ideologico-politico a livello globale, lo è ormai anche nei rapporti tra forze politiche appartenenti sulla carta allo stesso campo.
Fratelli d’Italia ha altresì scelto la strada dell’opposizione solitaria a questo governo, che è poi una delle ragioni dei consensi crescenti che da mesi registra. Le ammucchiate parlamentari, anche quelle motivate da una logica di salvezza nazionale, evidentemente portano bene a chi se ne tiene lontano rendendosi così riconoscibile dagli elettori. 
Lo ha capito Conte, con la piccola differenza che pretendere di fare il controcanto all’esecutivo di cui si fa parte, non avendo la forza di rompere e di invocare elezioni anticipate, è un’esercitazione sterile. Specie se come interlocutore hai uno come Draghi, che ti lascia sfogare e poi fa come gli pare.
La Meloni s’è tenuta fuori dalla larga maggioranza. I suoi alleati ne fanno parte insieme alla sinistra. Per il futuro, prima di prendere impegni, vorrebbe conoscere le loro reali intenzioni. Nel 2018 Salvini lasciò il centrodestra, al quale era legato da un patto apparentemente di ferro, per andare al governo con il M5S. Quel precedente è la fonte delle attuali diffidenze, forti anche nei confronti di Forza Italia: con chi vogliono realmente stare gli uomini e le donne di Berlusconi? Vogliono rilanciare il centrodestra, come dice quest’ultimo, o preferiscono tenersi le mani libere per qualunque soluzione parlamentare?
Ma come detto il vero problema del centrodestra, in questo momento, al di là delle liti personali e delle divisioni contingenti sul nome di questo o quel candidato, come si sta vedendo con riferimento alle prossime elezioni amministrative, è il senso d’anacronismo che esso trasmette. 


È un’alleanza antica, con una storia di importanti successi alle spalle: e questo potrebbe essere un punto di forza. Rischia però di trasformarsi in un’alleanza vecchia e fuori dal tempo nella misura in cui si limita a riproporre sé stessa e i suoi slogan di un tempo.
Il programma unitario, ha sostenuto Berlusconi, esiste già ed è quello sottoscritto nel 2018. Nel frattempo, viene da notare, ci sono state la pandemia e la guerra: traumi psicologici globali, scombussolamenti sociali profondi. L’idea-forza del centrodestra è battersi alla morte perché la casa non venga tassata con la scusa della revisione dei valori catastali? Per carità, è un tema importante, ma altri problemi urgono alla porta: la sicurezza energetica dell’Europa (e in primis dell’Italia), la denatalità, la ridefinizione del ruolo della Stato, il disagio giovanile che cresce, la messa in discussione di un modello di sviluppo industriale incompatibile con la difesa dell’ambiente, la creazione di un nuovo ordine internazionale, le migrazioni di massa come fenomeno strutturale, l’Europa da ridisegnare nelle sue regole interne, la crisi della democrazia parlamentare a scapito degli esecutivi, l’impatto delle nuove tecnologie sui sistemi sociali, il crollo dei tradizionali canali educativi e scolastici, la famiglia messa in discussione nel suo assetto tradizionale, l’offensiva ideologica della “cancel culture”, le nuove minacce alle libertà individuali, il rischio di consegnare a tecnici e esperti il governo delle nazioni… 


Sono oppure no temi politici che dovrebbero entrare nella riflessione e nei programmi del centrodestra che si vorrebbe ricostruire?
La cui fortuna e forza, in questo momento, è soprattutto l’evanescenza del “campo largo” progressista. Da ieri, con la nomina di Stefania Craxi a presidente della Commissione Esteri del Senato, un oggettivo schiaffone alla demagogia anti-politica se i simboli contano ancora qualcosa (e il nome Craxi lo è), il caos nel M5S è diventato totale. 
La virata verso il proporzionale di Letta si spiega anche per questo motivo: gli servirebbe per sganciarsi da un’intesa che per il Pd, stante le continue bizzarrie di Conte e dei grillini, rischia di rivelarsi assai dannosa. Esattamente la ragione per cui, ragionando al contrario, al centrodestra conviene invece tenere duro sulla legge elettorale vigente: e infatti è stato questo – no al proporzionale – l’unico punto sul quale i tre leader hanno convenuto ad Arcore. 
Per il resto, come detto, l’alleanza è tutta da ricostruire, ma non si sa bene come e su che basi. Berlusconi e Salvini non digeriscono platealmente la primazia della Meloni, anche perché donna. Inutile nasconderselo, c’è anche il problema della loro arcaica visione machista-maschilista della politica. I due, per contare di più, vorrebbero federarsi ma non possono: i forzisti che non vogliono morire meloniani, tanto meno vogliono finire nelle fauci della Lega col cappello in mano.
Mettiamoci anche che la Meloni controlla il suo partito come né il Cavaliere né il Capitano riescono più a fare, tra mugugni e dissensi crescenti verso entrambi anche da parte dei fedelissimi di un tempo: le ambizioni centriste della Carfagna, le accuse della Gelmini alla corte che secondo lei tiene prigioniero Berlusconi, i governatori del Nord che non ne possono più dei troppi cambi di linea di Salvini, Giorgetti che fa da sempre sponda con Draghi ecc.


La situazione è oggettivamente di difficile composizione. Il centrodestra diviso perde, alle prossime amministrative come alle politiche nel 2023. Ma unito solo per ragioni di facciata, rischia di non andare molto lontano, di vincere per poi fallire alla prova del governo, come talvolta è accaduto in passato.
Ma se così è, tra coalizioni che non si riescono a formare e coalizioni sul punto di sfasciarsi, quello che si profila è un vero e proprio stallo, che potrebbe giocoforza portare – quale che sarà il voto nelle urne il prossimo anno e stante la magmatica situazione internazionale tra guerra e crisi economica – ad un’ennesima soluzione parlamentare d’emergenza. Del tipo un governo ancora guidato da Draghi, sostenuto da Fratelli d’Italia, Pd, Forza Italia e dall’ala pragmatica del grillismo capeggiata dallo scissionista Di Maio, e con all’opposizione la Lega e quel che resterà del M5S guidato da Conte.
Con la politica italiana, anche solo a raccontarla per scenari solo all’apparenza paradossali e irrealistici, non ci si annoia mai.

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