Alessandro Campi
Alessandro Campi

Divisioni interne/La lezione del Cavaliere alla destra in affanno

di Alessandro Campi
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Giovedì 18 Novembre 2021, 02:11 - Ultimo aggiornamento: 19 Novembre, 13:19

Berlusconi Presidente della Repubblica è un bel sogno (per i suoi storici avversari in realtà è un incubo) che tanto non si realizzerà. Lo sa lui per primo, che in questi giorni si sta accreditando in quel ruolo soprattutto per divertimento personale, nei panni da guastatore del teatrino della politica che gli sono sempre piaciuti, pur essendo egli parte di quel teatrino anche se ormai in qualità di storico impresario più che di prim’attore, non perché davvero convinto di potercela fare.


Il problema semmai sono i suoi amici ed estimatori, al solito più lealisti del re, che ne parlano come di una possibilità concreta. Un ottuagenario nei panni, che in questa fase storica richiedono una grande energia, del “guardiano della Costituzione”? Un uomo che ha storicamente spaccato in due l’opinione pubblica messo a fare il garante dell’unità nazionale? Gli si deve volere molto male per immaginare di dargli tale incombenza, senza peraltro nemmeno chiedersi quanto davvero sarebbe utile all’Italia una simile soluzione.
Nella corsa al Quirinale quello a cui il centrodestra da lui inventato può ragionevolmente ambire – dopo Scalfaro, Ciampi, Napolitano e Mattarella – è piuttosto un Capo dello Stato che, anche non dovesse provenire organicamente dalle fila del moderatismo italiano, almeno non consideri i suoi elettori e simpatizzanti, senza ovviamente dirlo in pubblico, la parte sbagliata e impresentabile della nazione. Già quest’ultimo sarebbe un successo, un riequilibrio storico.


Se è vero infatti che gli insulti che un tempo gli venivano riservati (d’essere un populista eversore con inclinazioni dittatoriali) oggi hanno come destinatari Meloni e Salvini, è anche vero che la strategia delegittimante d’una metà almeno della società italiana sembra rimasta la medesima d’un tempo. L’antifascismo militante perpetuo ha sempre bisogno del fantasma del fascismo eterno, salvo cambiare ogni volta la fonte della minaccia.


Il Cavaliere ha ancora un bel gruzzoletto di voti in Parlamento. Al momento buono, d’intesa coi suoi alleati storici, se tiene a ciò che ha politicamente costruito, può usarlo dunque per quest’obiettivo: sottrarre per una volta il Quirinale al monopolio etico-politico della sinistra, senza revanchismi, ma appunto per ragioni di effettiva rappresentatività e unificazione nazionale.


Se il Berlusconi di oggi gode in effetti d’una considerazione diversa dal recente passato è per fattori molto pratici e contingenti. Essendosi indebolito elettoralmente e fattosi fatalmente anziano, semplicemente incute meno timore. Molti di quelli che gli hanno fatto la guerra, strada facendo non si sono rivelati migliori di lui, anche se si ostinano a pensarlo. Ha dimostrato una tenacia di carattere e una tigna che avercele in quest’epoca di spiriti impauriti e fragili, di politici molli. Sta lì inamovibile da quasi trent’anni, mentre anche in Europa sono spariti molti storici protagonisti, e anche questo conta nel giudizio sull’uomo fattosi più rispettoso. Infine, tutti – dalla destra alla sinistra – sanno di dovergli qualcosa essendo stato lui l’inventore delle tecniche della pop-politica oggi usate massicciamente e trasversalmente. Ma da qui a finire sulla poltrona del Colle, peraltro come se quest’ultima carica possa considerarsi un risarcimento simbolico per i troppi attacchi subìti, corre un abisso. 


Il problema Berlusconi, al di là dei tatticismi da qui al prossimo febbraio, va dunque posto su un altro piano. E riguarda non la sua impossibile giubilazione costituzionale (saranno i libri di storia eventualmente a compensarlo), ma la sua eredità politica, quel che potrà essere o diventare il centrodestra (sempre che risolva i suoi attuali dissapori interni), la possibilità per quest’ultimo di tornare a vincere e a governare.


Non sono pochi, nella cerchia di Berlusconi, coloro che gli consigliano – proprio in queste ore – di mettersi a giocare in proprio, di lasciare Matteo e Giorgia al loro destino prima che siano quei due ad abbandonare lui, di pensare soprattutto al futuro del suo partito facendosi banditore di un ritorno al proporzionalismo integrale, di fare il traghettatore verso una Terza Repubblica che avrebbe nel “draghismo” a base consociativa (il governo affidato ai competenti e sottratto ai politicanti, con questi ultimi ridotti a semplici portatori d’acqua in Parlamento) il suo nucleo ideologico e fattuale.

Il “draghismo” inteso, da chi crede in questa prospettiva, come realizzazione del “berlusconismo” delle origini: quello nato per soppiantare la partitocrazia parassitaria e corrotta con “l’Italia del fare”. 


Ma questo finale di partita, ammesso sia realistico, ammesso piaccia agli elettori e non solo ad alcuni addetti ai lavori, è probabile che venga percepito dallo stesso Berlusconi come un rinnegamento della sua esperienza. Che si può riassumere nelle seguenti innovazioni: aver introdotto il confronto bipolare destra-sinistra al posto del multipartitismo d’impianto trasformistico; aver legittimato la “democrazia del leader” in un Paese che ha sempre confuso il capo col dittatore; aver dato piena agibilità politica a partiti (dalla Lega alla destra post-missina) che altrimenti avrebbero rischiato la marginalità anche a dispetto dei consensi; aver dato espressione politica unitaria, con la creazione della formula del centrodestra, a quel blocco sociale e culturale sovente definito “maggioranza silenziosa” (l’Italia moderata e anti-sinistra, la “destra sommersa” come la chiamava Leo Longanesi). A chi è stato tutto questo si può oggi chiedere di mettersi a fare il centrista tardo-democristiano, il manovratore in Parlamento di maggioranze “à la carte” come se fosse il leader di un partitino qualunque e non appunto il Cavaliere per antonomasia?


Certo, oggi nel centrodestra non è più lui l’azionista di maggioranza, ma i suoi alleati più giovani e impazienti, cresciuti forse troppo in fretta rispetto alle loro reali capacità e ambizioni. E sui quali grava appunto la responsabilità di innovare la stagione fisiologicamente conclusa del berlusconismo stando però attenti a non mandare tutto in malora (il segnale negativo delle recenti amministrative dovrebbe aver insegnato qualcosa). Del berlusconismo sinora essi sembrano aver preso il peggio. Ad esempio il personalismo spinto, sino a fare anche della Lega e di Fratelli d’Italia quel che Forza Italia è stata, per ragioni genetiche, da sempre: un partito privato, una monocrazia. Ovvero l’ossessione comunicativa, il voler sempre stare in contatto diretto col popolo anche quando si rischia di non avere nulla da dire.


Dovrebbero provare a prendere invece il meglio. Ad esempio la capacità che Berlusconi ha sempre avuto, pur mantenendo accanto a sé un nucleo di fedelissimi, di imbarcare energie esterne purché congruenti con la sua battaglia. Apertura, non chiusura. Lega e FdI sono invece partiti che spesso mostrano una natura autoreferenziale e settaria. Mettiamoci anche la capacità berlusconiana di tessitura diplomatica, dentro e fuori i confini italiani: non si tratta di vestirsi a festa per essere accettati nei salotti buoni, secondo una mentalità populista un po’ stracciona, ma di essere considerati credibili e affidabili nelle partite politiche che contano. Infine, il posizionamento moderato e pragmatico che Berlusconi, anche quando faceva l’estremista a chiacchiere, ha sempre perseguito, ben conoscendo l’avversione del suo vasto elettorato verso ogni forma di radicalismo ideologico. 


La scommessa, già in previsione delle prossime elezioni politiche, è insomma quella di far nascere un centrodestra nuovo anche se in continuità con quello che ha finito il suo ciclo. Berlusconi ha molto da insegnare, Meloni e Salvini molto da apprendere. Uniti possono ancora vincere. Divisi, perdono tutti.

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