Paolo Balduzzi
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Il caso degli atenei/ L’importanza di tenere aperte (solo) le scuole

di Paolo Balduzzi
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Martedì 11 Gennaio 2022, 00:24

Siamo nel pieno della cosiddetta quarta ondata della pandemia e, valga tanto come constatazione quanto soprattutto come speranza, stiamo per entrare in quello che probabilmente sarà il mese più difficile dell’anno. Tuttavia, i disagi per la popolazione sono già all’ordine del giorno da diverso tempo. È un fatto che la battaglia contro il virus non potrà essere semplicemente basata sulla forza: se fosse davvero così, dovremmo arrenderci. Il virus è infatti più forte di noi, più veloce, troppo mutevole e in fin dei conti ancora sconosciuto. Possiamo (dobbiamo!) però provare a batterlo con quella che dovrebbe essere la principale testimonianza dell’evoluzione della specie, vale a dire il nostro cervello. E una battaglia svolta con intelligenza richiede delle pause, quando sono necessarie. Ad oggi, al contrario, ci sono troppe persone in giro. Ora, nessuno si augura un nuovo lockdown. Sarebbe durissimo da sopportare, sia psicologicamente sia economicamente. Non solo: un lockdown, completo o limitato ai non vaccinati, non farebbe altro che esasperare ulteriormente la distanza tra questi e il resto della società, mettendo nuovamente a rischio anche la sicurezza pubblica. Allo stesso tempo, non si capisce però perché non si possa ragionare esplicitamente su quali settori potrebbero fermarsi per qualche settimana e quali no.

Di alcune attività non vale nemmeno la pena di parlare: basti pensare alla sanità, all’alimentazione, alla logistica. Ma, quando si arriva alla scuola, è molto facile dividersi. Degli effetti deleteri della didattica a distanza su umore, prestazioni, socialità e abbandono scolastico si è già scritto molto. Ma l’istruzione pone altri problemi interessanti: in assenza di un lockdown generalizzato che obblighi gli studenti a stare comunque in casa, chiudere le aule equivarrebbe a riversare centinaia di migliaia di studenti in strada, nei parchi o, peggio ancora, nelle stesse abitazioni, ma in comitiva. Tutti luoghi dove, a differenza che in classe, i ragazzi non sarebbero controllati sull’utilizzo della mascherina e sul distanziamento sociale. Peraltro, per gli alunni delle scuole d’infanzia e primaria, una chiusura significherebbe grossi problemi organizzativi per le famiglie coinvolte, con ulteriori astensioni dal lavoro da parte di questi genitori.

Chiudere le scuole sarebbe quindi da evitare. Quando però si tratta di università, le cose cambiano. In questi due anni, i rettori italiani hanno fatto grandissimi investimenti in infrastrutture tecnologiche per permettere ai propri studenti di poter continuare a seguire le lezioni in maniera adeguatamente efficace anche a distanza; allo stesso modo, seppur con maggiori difficoltà, gli studenti sono stati valutati con sessioni d’esami che, al di là di qualche problema tecnico, sono diventate anch’esse patrimonio delle nuove modalità di didattica in tempi di pandemia.

Sia chiaro: la voglia di tornare alla normalità è diffusa, anche tra i docenti e gli studenti universitari. Ma davvero sarebbe improponibile che le università, in questo particolare momento dell’anno, tornassero a utilizzare le tecnologie che tanto sono costate (e sono ora in dotazione), così da non obbligare gli studenti a spostarsi?

I mesi autunnali hanno fatto illudere la comunità universitaria di essersi ormai lasciati il peggio alle spalle. Ma non è così. E non ci sarebbe davvero nulla di male a riconoscerlo. Innanzitutto, per questioni pratiche non irrilevanti. Continuare anche in queste settimane con la didattica online eviterebbe a molti studenti di mettersi in viaggio, sia che essi provengano dall’estero, da altre parti della nazione o anche solo dalle periferie e dalle province. La gestione della sessione d’esami fornisce un esempio lampante di come ci si possa perdere in un bicchiere d’acqua. Alcune università obbligano gli studenti a esami scritti in presenza, pur ammettendo eccezioni online per positività, quarantena, fragilità, difficoltà di mettersi in viaggio. Ma cosa succederebbe – ed è esattamente in questa direzione che il Paese sta andando - se le eccezioni diventassero la regola, o quasi? O cosa succederebbe se a metà sessione il (previsto, peraltro) peggioramento della situazione sanitaria costringerà a cambiare di nuovo le regole? Quale parità di trattamento si potrebbe mai garantire agli studenti in una situazione del genere? Inoltre, cosa succederebbe se una buona parte del corpo docente stesso non potesse, per ovvie ragioni, presenziare agli esami?

Al di là di qualche eccezione, sembra che le università italiane non siano disposte a fare marcia indietro, con la scusa che i contagi avvengono nelle file per le piste da sci, non certo nelle aule universitarie. Il che può anche essere vero. Ma su una pista a sci una persona ci va di propria spontanea volontà, mentre a fare un esame in aula lo studente è obbligato ad andare dalla sua università. È un vero peccato. Perché – e questa è la vera ragione - gli atenei dovrebbero essere il luogo della conoscenza critica e la frontiera delle capacità intellettive. Il loro ruolo non è solo quello di fare ricerca e tramandare nozioni, ma anche quello di guidare il Paese, di dare un esempio. Se chi lo potesse, come le università, si fermasse per poche settimane, contribuirebbe a far fare cento passi in avanti a tutto il Paese e in particolare a coloro che, al contrario, di fermarsi non si possono permettere. Come quel negoziante che con la vetrina abbassata non mangerebbe; o come quel bambino che, senza la sua classe, sarebbe escluso dalla società.

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