Giuseppe Vegas
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I livelli essenziali/ L’autonomia e l’ombra di una nuova tassazione

di ​Giuseppe Vegas
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Sabato 11 Febbraio 2023, 00:01

Il disegno di legge del governo sulle ulteriori forme di autonomia di cui potranno godere le regioni, ha aperto la stura a diffuse critiche, prevalentemente riferite al possibile rischio di creare una sorta di Italia a due velocità, a danno delle zone meno sviluppate. In un mondo ideale i cambiamenti più radicali su questo fronte dovrebbero mirare a un obiettivo assai diverso. Da una parte, cercare di controllare la possibile fuga solitaria delle regioni più ricche, che vorrebbero rendere più tutelata la vita dei loro cittadini, abbandonando al loro destino quelli delle regioni meno favorite, che vedrebbero i loro abitanti privi dei mezzi essenziali relativi al godimento dei diritti civili e sociali garantiti dalla Costituzione. Il che sarebbe naturalmente inaccettabile, a meno che non si desideri che la repubblica si trasformi in una giubba di Arlecchino. E, dall’altra parte, avvicinare le scelte pubbliche che riguardano ciascuno di noi al luogo istituzionale di maggiore prossimità, in applicazione del principio di sussidiarietà, che presuppone che l’ente pubblico che è più vicino ai cittadini ne conosca meglio i bisogni, e quindi li possa soddisfare in modo più efficiente.


Va però anche detto che la normativa proposta rappresenta una sorta di atto dovuto, finalizzato ad applicare la riforma del 2001 del Titolo V della Costituzione, che devolveva numerose importanti funzioni statali alle regioni.  L’autonomia differenziata, da attribuire alle regioni che lo avessero richiesto e che vi avrebbero fatto fronte con risorse proprie, era dunque già prevista dalla riforma. Era solo in attesa di una normativa di attuazione. Si è dovuto attendere il 2009, allorché la legge 42 ha posto le basi del federalismo fiscale, individuandone le modalità di funzionamento. Successivamente, la legge di Bilancio per il 2023 ha deciso lo strumento, individuato nella definizione di livelli essenziali delle prestazioni (Lep), da erogare a tutti, indipendentemente dalla regione di appartenenza.


Ovviamente, sono fuori discussione le buone intenzioni. La circostanza però che siano passati vent’anni senza che la riforma abbia trovato applicazione e che nessuno, in questo lasso di tempo, si sia assunto la responsabilità di farlo, potrebbe far sorgere qualche dubbio sulla sua percorribilità. Innanzitutto sull’opportunità di far cadere quel vincolo solidaristico che, bene o male, ha finora unificato le nostre venti “piccole patrie”. Da un punto di vista pratico, poi, prima di consentire a qualcuno di essere “più uguale” degli altri, era indispensabile decidere quale dovesse essere il livello di uguaglianza irrinunciabile per tutti e trovare le risorse per finanziare il gap di chi si trova sotto soglia. Senza entrare nel merito della questione se sia facile o meno redigere la mappatura dei livelli essenziali, occorre tuttavia quantificarne l’onere. Se si fa riferimento alla spesa storica, non si cambia nulla. Se si interviene in base alla spesa media si svantaggiano le regioni più efficienti, mentre se ci si attesta sulla spesa pro-capite più bassa si rischia di penalizzare quelle dove risiedono più anziani o studenti. Sotto un profilo razionale, la misurazione dovrebbe spingere all’efficientamento della spesa, ma non è detto che sia così nella realtà, né che si possano evitare duplicazioni di servizi, e di oneri per il personale, tra Stato e regioni.

L’impresa si presenta dunque ardua.


In ogni caso, la questione che solleva i più rilevanti interrogativi è quella dei costi della riforma. Costi che, molto probabilmente, sono stati la causa del rinvio della sua attuazione fino ad oggi. Che fare? Come si usa nelle migliori tradizioni, il problema viene affrontato buttando la palla in corner: affermando semplicemente che la riforma non deve costare. Come si procede in casi del genere? È semplice. Prima si stabilisce il contenuto dei Lep, poi si valuta il costo della loro estensione a tutti e infine si precisa che nessuna regione potrà avere meno risorse economiche di prima. Per superare l’apparente quadratura del cerchio, basta affidare ad una commissione la ricognizione e la quantificazione degli oneri del nuovo sistema. Nel caso non improbabile, poi, in cui si riscontrasse la necessità di incrementare la spesa storica per far fronte alle nuove esigenze soddisfatte dalla legislazione sull’autonomia, la proposta governativa prevede che il finanziamento della nuova spesa aggiuntiva dovrà «essere compatibile con gli impegni finanziari assunti con il Patto di stabilità e crescita» europeo e comunque non potrà provocare «nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica».


Si tratta di una intenzione lodevole. Gli oneri aggiuntivi, infatti, dovranno essere definiti per legge e le spese dovranno rispettare i criteri fissati dall’articolo 81 della Costituzione per la loro copertura finanziaria.
Fin qui tutto bene. Peccato che, per rispettare il principio di non dare origine a nuovi oneri a fronte di una nuova spesa, nel nostro caso basta che sia raggiunto l’equilibrio tra entrate e spese, sul quale si regge il teorema del pareggio di bilancio. Non a caso, l’articolo 4 del disegno di legge precisa che l’obiettivo è garantire proprio «l’equilibrio di bilancio». Una sorta di tautologia, che altro non vuol significare che il bilancio deve essere un bilancio, cioè deve essere costruito in pareggio. Ma il pareggio si raggiunge in diversi modi, come precisa la legge di contabilità, che ha attuato il principio della citata disposizione costituzionale: riducendo altre spese, o incrementando le entrate. Categoria quest’ultima che comprende il ricorso a nuova tassazione o anche all’accensione di ulteriore debito pubblico. Aumentare il debito per finanziare spese correnti sarebbe vietato, ma la regola non è stata sempre rispettata. Tagliare la spesa risulta essere un esercizio alquanto arduo, impopolare e quindi poco praticato, almeno finora. Resta lo strumento più facile, quello fiscale.


Il solo concepire la possibilità di aumentare le tasse, in un Paese in cui i contribuenti lavorano fino alla fine del mese di giugno (e anche oltre) per pagarle e solo i restanti mesi dell’anno per far fronte ai propri bisogni, ed in costanza della nota situazione di difficoltà in cui versa l’economia nazionale, avrebbe tutte le caratteristiche di una scelta improvvida. E pensare che non sarebbe difficile risolvere il dilemma. Basterebbe sostituire nella clausola finanziaria, dove sono scritte le parole «equilibrio di bilancio», quelle «invarianza della spesa». Solo tre parole…

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