Andrea Bassi e Osvaldo De Paolini

Economia differenziata/ L’autonomia e i sindaci che temono il grande Nord

Economia differenziata/ L’autonomia e i sindaci che temono il grande Nord
di Andrea Bassi e Osvaldo De Paolini
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Venerdì 24 Marzo 2023, 23:53 - Ultimo aggiornamento: 26 Marzo, 00:14

Le perplessità che molti sindaci e alcuni presidenti di regione del centrodestra hanno manifestato nei giorni scorsi sul progetto di riforma dell’autonomia differenziata, impongono alcune considerazioni, non fosse altro che per il fatto che proprio dal loro schieramento politico quella proposta proviene. A preoccupare gli amministratori locali è, con ogni probabilità, una declinazione diversa del concetto di “autonomia differenziata” che viene disegnato nel progetto: si chiama “economia differenziata”, che altro non è che una definizione per descrivere quella che Adriano Giannola, presidente di Svimez, ha definito (con toni allarmati) come «la svolta strutturale del sistema che da 30 anni si cerca di imporre al Paese». Il riferimento di Giannola non è tanto all’indipendenza della Padania degli albori, quando la Lega Nord di Umberto Bossi si nutriva delle tesi di Gianfranco Miglio, quanto piuttosto all’idea di un “grande Nord” che gestisca in autonomia le molte risorse finanziarie derivanti dalla ricchezza delle sue imprese e dei suoi cittadini e si appropri di tutte le infrastrutture di cui il Settentrione è ben più dotato del Centro Sud perché per decenni gli investimenti pubblici sono stati orientati soprattutto verso quell’area che si riteneva dovesse fare da traino per l’intero Paese.
Da circa un decennio, la Lega ha capito che la prospettiva del “grande Nord” oggi può essere raggiunta per via costituzionale grazie, o sarebbe meglio dire per colpa, della sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione avvenuta nel 2001. 

Il “baco” nel sistema è l’articolo 116 comma ter, che consente di chiedere la devoluzione di 23 materie oggi di competenza dello Stato, compresa la gestione di porti, autostrade, reti ferroviarie, gasdotti, elettrodotti; persino la politica commerciale con i Paesi europei e quelli extraeuropei spetterebbe ai governatori, oltre alla gestione completa della Sanità e della Scuola. L’articolo 117 della Costituzione, poi, permette alle Regioni che hanno ottenuto l’autonomia di “accordarsi” con altre Regioni per creare organismi comuni e gestire le nuove competenze. 
Il “secondo tempo” dell’autonomia, quasi inevitabile secondo il ragionamento di Giannola, sarebbe insomma l’unione delle Regioni autonomiste per la creazione dell’agognato “grande Nord”, uno Stato nello Stato che renderebbe Roma una Capitale minore e i prossimi presidenti del Consiglio obbligati a confrontarsi su ogni decisione con un blocco di potere macro-regionale le cui priorità, si può scommettere, coinciderebbero assai poco con l’interesse nazionale. Un controsenso per la riforma presidenzialista che il premier Giorgia Meloni vorrebbe intestarsi.
Ma il punto è anche un altro.

Questa rivoluzione istituzionale e strutturale del Paese viene trattata in luoghi privati, persino segreti, come fosse un affare di famiglia (leghista) mentre, curiosamente, nessun esponente della maggioranza di governo si intromette, nessuno ne parla. Non si tratta di una novità. Già nel 2018 l’allora governo Gentiloni, sotto il pressing di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, arrivò a concordare delle pre-intese. I documenti furono secretati. Fu Il Messaggero a scovarli e renderli pubblici. E alla fine quelle intese furono “ritirate” per la sollevazione popolare che seguì alla rivelazione dei contenuti di accordi che avrebbero consentito alle Regioni più ricche di trattenere buona parte del gettito fiscale maturato sui loro territori, condannando il resto dell’Italia. 

Anche il nuovo progetto autonomista portato avanti dal ministro Roberto Calderoli sembra aver imboccato la strada di una scarsa trasparenza. Una norma inserita nella manovra di Bilancio dello scorso anno, ha dato vita a una cabina di regia per la definizione dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni, che dovrebbero servire a garantire uguali servizi in tutto il Paese. Delle convocazioni e dei lavori di questa cabina di regia non si hanno notizie. Si sa, perché alcuni membri lo hanno fatto sapere, che il ministro ha costituito - o vorrebbe costituire - una commissione di esperti per affiancare il lavoro della Cabina di regia. Ne farebbero parte, tra gli altri, numerosi membri della delegazione veneta che aveva trattato con lo Stato le pre-intese poi ritirate: non proprio tecnici super-partes, insomma. E non si sa, per esempio, se la delegazione dello Stato e quella di Veneto e Lombardia tratteranno prima che la legge-quadro sia approvata dal Parlamento o stanno già trattando sulle materie da cedere. I tecnici di Calderoli finora hanno prodotto un documento di 81 pagine che elenca 500 competenze potenzialmente trasferibili ai governatori, ma questo documento non è mai stato reso ufficialmente pubblico: anche in questo caso ne conosciamo i contenuti solo grazie alle rivelazioni pubblicate dal Messaggero. Più voci nei giorni scorsi si sono levate, da destra e da sinistra, per avvertire del grave rischio che il Paese venga spezzato in due da una non equilibrata gestione della riforma. Un rischio oggettivo, per nulla attenuato dal fatto che il disegno di legge reca la firma del Presidente della Repubblica, un atto dovuto che ne autorizza la presentazione alle Camere. Un rischio oggettivo, dunque, sul quale anche la maggioranza di governo dovrebbe cominciare a riflettere.

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