Paolo Pombeni
Paolo Pombeni

L’antipolitica/ L’arma spuntata della richiesta di dimissioni

di Paolo Pombeni
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Venerdì 3 Marzo 2023, 00:00

Come si fa opposizione? La risposta oggi sembra essere sempre più che la si fa chiedendo le dimissioni di qualche membro del governo. Badate bene: non si tratta di sfiduciare il governo, il che rientra nella normalità di quanto può fare un’opposizione. Si parla della richiesta che un ministro, o un sottosegretario, o un titolare di posizioni parlamentari apicali lascino, per loro decisione, la carica che ricoprono accettando il giudizio avverso dell’accusatore. 
L’abbiamo visto in questi giorni contro il ministro Piantedosi, prima contro i ministri Valditara e Nordio, il sottosegretario Del Mastro, il vice presidente del Copasir Donzelli.
È difficile non stupirsi di fronte a questo modo di condurre l’opposizione. Il fatto che questa metta sotto accusa membri del governo, e indirettamente il governo stesso fa parte della normale logica del confronto parlamentare. Si potrebbe naturalmente chiedere che si faccia un’opposizione più dialettica e meno da muro contro muro, ma questo è un auspicio che si scontra con la realtà di una dialettica ridotta allo stereotipo dei buoni contro i cattivi.


La richiesta di dimissioni ci pare però impropria anche in quest’ottica. Mentre la sfiducia è un atto politico, che rientra nella fisiologia dei rapporti parlamentari, in quanto una componente può sempre denunciare come sbagliato e perfino inaccettabile il comportamento di un membro del governo e poi si vedrà se sulle motivazioni che presenta si riuscirà o meno a raccogliere adesioni, la richiesta di dimissioni è un atto moralistico che pretende di imporre all’accusato il suo autoaffondamento.
Richiedere che il responsabile di una azione politica si riconosca da sé inadeguato al proprio compito perché questo gli viene imputato dall’avversario politico non si sa a quale logica possa rispondere, se non a quella di esigere il riconoscimento del proprio giudizio come un atto già di condanna senza appello. 
In politica non succede quasi mai, anzi la normalità è che l’attacco dell’avversario costringa i sostenitori del governo a fare quadrato intorno a chi viene chiamato in causa, anche quando fra di essi ci possano essere dubbi sull’appropriatezza dell’azione del soggetto additato alla censura. 
Ciò avviene, non fosse altro, perché tutti sanno che il riconoscimento pubblico di una inadeguatezza da parte di un membro importante della maggioranza compromette la stabilità dell’intero esecutivo.
Certo tutti sanno che queste richieste sono solo sceneggiate per il teatrino della politica, perché non sono idonee a raggiungere l’obiettivo. Quando ci sono spazi e opportunità per mettere in crisi un esecutivo, magari partendo dalle azioni di uno dei suoi membri, si ricorre alla mozione di sfiducia, da qualche anno possibile anche verso un singolo ministro.

Anche qualora si sappia che non ci sono i numeri per farla passare, si può comunque considerarla un mezzo per contarsi, per costringere a qualche defezione nell’altro campo. Tuonando con richieste di dimissioni non si riesce a capire quale obiettivo reale si possa raggiungere: l’accusato difficilmente accoglierà l’invito, la sua parte politica lo sosterrà ma senza bisogno di esporsi in una verifica coi voti, e tutto rimarrà più o meno come prima.
Dunque molto rumore per nulla? Non è esattamente così, perché questo modo di condurre la lotta politica non è salutare. Mira infatti ad accentuare l’aspetto del confronto come ricorso alla gogna mediatica, poiché è evidente che la comunicazione non è fatta per muovere le dinamiche delle aule parlamentari, ma per eccitare l’opinione pubblica, soprattutto quella dei fan, costruendo se non proprio mostri, mostriciattoli o comunque persone da additare al pubblico ludibrio.
È la tecnica tipica di tutte le forze antipolitiche.

Da questo punto di vista ha una storia piuttosto lunga, sebbene chi la conosce sappia che quasi mai porta frutti accettabili. La vediamo riproposta negli innumerevoli teatrini mediatici, televisivi o cartacei che siano, tutti tributari della vecchia logica dello “sbatti il mostro in prima pagina”. Anzi adesso c’è l’evoluzione: fallo parlare in un bel rito da tribunale di salute pubblica o di inquisizione con rogo finale, per fortuna solo virtuale come si addice alla nuova realtà digitale.

Invece non di antipolitica c’è bisogno oggi, ma più che mai di politica, quella che non chiede gesti teatrali, rituali inquisitori, ma proposte concrete, analisi, individuazione di risposte e soluzioni ai problemi che si hanno davanti. Quando un parlamentare di opposizione (o anche di maggioranza) è in grado di mostrare che un’azione del governo è debole o sbagliata perché si poteva o addirittura si doveva agire in altro modo, perché erano a disposizione strumenti e soluzioni diverse da quelle applicate ha già raggiunto il suo obiettivo: ha aperto la strada perché una certa politica cambi, si adegui, trovi nuovi punti di riferimento. 
Può essere un successo solo parziale nell’immediato, perché il governo può trovare utile accettare il cambio di rotta oppure perché il governo fa muro e continua nei suoi errori, ma poi si avrà un guadagno netto per l’aumento della sua credibilità e autorevolezza, il che è sempre un investimento per il futuro (e la politica dovrebbe sempre essere proiettata verso un futuro).
Certo non si avrà il gradimento eccitato dei fan-club che seguono dagli spalti mediatici, ma si dovrebbe ricordare che quella è roba più che volatile.

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