È quasi banale, mette rabbia e insieme un profondo senso di insofferenza, verso una tolleranza che fa il calcolo del male minore: non stuzzicare la bestia e cercare, ammansendola, di condurla nella tana della curva. È una logica al ribasso, arrendevole e alla fine, per i costi che impone e tutti, perdente. Perché se è vero che non si lamentano saccheggi e devastazioni com’è accaduto in altre e diverse occasioni è altrettanto vero che il prezzo complessivo è altissimo. Faceva effetto, dopo una giornata tutta intrisa di stupore e disagio, vedere tre quarti dello stadio Olimpico con gli spalti vuoti a dimostrazione del pochissimo interesse per l’avvenimento. Solo le curve degli ultras stipate e urlanti: la sproporzione tra il prezzo pagato dalla Capitale e la dimensione dell’evento è spaventoso, pesantissimo, inaccettabile.
Perché la Capitale deve sentirsi presa in ostaggio, dal centro storico, sui Lungotevere fino all’Olimpico per volontà di gruppi di tifosi calati qui da Francoforte per una partita di Europa League? Perché, schierati a falange, quasi una marcia militare, più di mille ultras si impossessano di vaste zone centrali, marciano tronfi brandendo bottiglie di birra e di vino, da via del Tritone puntano a piazza Colonna, alle vie dello shopping cospargendo il loro passaggio di tensione e di paura?
La notte prima del match tra Lazio ed Eintracht la movida di Campo de’ Fiori raggelata da schiamazzi, zuffe, scorribande: perché? Spettacolo sportivo e ordine pubblico, corsa al gol e violenze programmate si intrecciano mescolandosi: una miscela esplosiva collaudata nel tempo, costellata di precedenti anche sanguinosi, portatrice incontrastata di disagi e timori. Non siamo, qui, agli scempi barbarici dei tifosi del Feyenoord. Cannibalizzarono per ore piazza di Spagna e riempirono la Fontana della Barcaccia di scarti di bevute e di cibo. I colpevoli, tutti identificati, non sono neppure stati perseguiti in patria: “Mancano i video”, dissero. È un fatto insopportabile che tra le quotidiane emergenze, tra rifiuti che invadono le strade già mangiate dalle buche e le nubi oleose da incendio all’Ama che stringono la Capitale in un sandwich tossico, i romani debbano assistere a una partita di calcio che si trasforma, in omaggio al copione dello scontro fisico tra tifoserie, in una trappola micidiale. Le forze dell’ordine, piegate al ruolo di sentinelle della normalità violentata, risolvono alla meglio con buon senso e sangue freddo. Le forze dell’ordine vanno lodate per l’estenuante impegno a cui sono chiamate, costrette a montare la guardia a cortei di tifosi che si muovono come se possedessero il diritto di decidere come e dove andare, se stare e se muoversi, se bere e bivaccare o seguire le disposizioni in materia. I comportamenti si trasformano in una sorta di disobbedienza in casa d’altri, da ospiti si indossano gli abiti dei padroni di casa senza esserlo e senza sentirne i doveri. La città è ferita dallo sconquasso assai più che per i danni materiali che comunque deve pagare per l’arroganza di comportamenti invasivi e temerari. È evidente che occorre agire a monte, là dove si organizzano queste massicce spedizioni, là dove le diverse tifoserie agitano vessilli di guerriglia. Ancora una volta Roma umiliata da squadre di ultras: il centro storico, villa Borghese, vaste aree monumentali, tenute in scacco dal tifo calcistico che si trasforma in forza d’urto. E glielo si consente, rafforzando la convinzione che sia possibile. Forse è davvero giunto il momento, tra i giorni di passione cui siamo costretti, di ragionare una volta per tutte e decidere prima a tavolino e poi nei luoghi pubblici che le strade e le piazze sono di tutti e non di chi se ne ritiene il padrone. Nessuno ci convincerà che i calci a un pallone siano sinonimo di sequestro di una città alla quale si impone la paralisi. Al calendario del caos si deve dire no e soltanto no.
© RIPRODUZIONE RISERVATA