Paolo Graldi
Paolo Graldi

Convincere che non uccise la battaglia che non vincerà

di Paolo Graldi
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Venerdì 8 Febbraio 2019, 01:09
Lo ripeterà sempre, ossessivamente, fino al suo ultimo respiro: «Sono innocente». Con la cocciuta speranza di essere creduta. 
Con la speranza di strappare da chi la guarda con malcelata ostilità il sospetto che lei, Annamaria Franzoni, si tenga in corpo, come chiuso in un inespugnabile, macabro scrigno il suo segreto: la morte orrenda del figlio Samuele, tre anni, il 30 gennaio 2002 a Cogne, cittadina di montagna e di amanti della neve. 
Indagini controverse, investigatori maldestri, magistrati inconcludenti, processi segnati da enfasi e confusioni, opinione pubblica divisa e rumorosa, una sequenza infinita di ricostruzioni e apparizioni in tv dei protagonisti che hanno trasformato il caso in una operazione mediatica colossale. 
Condannata a sedici anni di carcere nel 2008 l’enigmatica signora, ora è libera, sulla sua scheda carceraria hanno scritto «pena espiata» e lei è rimasta a casa, a Ripoli Santa Cristina, sull’appennino bolognese. 
È rimasta dove doveva risiedere dal giugno 2014, pena accorciata per effetto della nostra legge, 45 giorni di sconto ogni semestre di detenzione patito. In cella, a conti fatti, poco meno di undici anni. 
Anche questo della detenzione è stato oggetto di dibattito e di polemiche. Sed lex. A riemergere da quell’incubo l’ha aiutata don Giovanni Nicolini, figura di straordinario carisma, ormai leggendaria della diocesi bolognese, capo carismatico di una comunità totalmente dedita alla beneficenza, alla cura dei poveri. 
L’ha accolta in una cooperativa sociale, indispensabile ai fini del reinserimento. Ora don Giovanni la sente poco e solo ogni tanto: la sua missione è compiuta. La missione consisteva nell’aiutarla a riemergere, senza domande, senza richiesta di spiegazioni, senza crudo scandaglio nei ricordi di riprendersi un brandello di serenità per riunirsi con il marito Stefano e i due figli. 
Gioele, ormai un giovane uomo, era in quella villetta di legno e mattoni la mattina della tragedia, quando la madre chiamò il 118 urlando che il figlioletto vomitava sangue e invece stava morendo a causa di due profonde ferite al capo. 
Che cosa sia davvero successo, minuto per minuto, quel giorno maledetto forse non lo si saprà mai: chi sostiene che la Franzoni fu preda di un raptus ma che gli psichiatri avrebbero dovuto e potuto aiutarla a ricostruire i fatti, tirarlo fuori da un pozzo nero che andava scandagliato nel profondo, ma subito, senza indugi. 
E invece accadde il contrario e le prime indagini risentirono di incomprensioni, ritardi, abbagli, depistaggi che coinvolsero addirittura innocenti. Restava comunque un caso indiziario e questo è sempre un elemento determinante per attrarre la curiosità, accendere la mobilitazione dei giornali, dei settimanali, della televisione. 
Una madre accusata di avere assassinato la sua creatura di tre anni in una casa quasi sperduta di un paese amato da sciatori e villeggianti di rango contiene abbastanza ingredienti per scatenare un interesse mediatico altissimo. 
Lei, Annamaria, ha affrontato più volte il raggio inquisitore e vagamente spietato delle interviste tv: mai e poi mai per discolparsi benché sotto processo e poi condannata in tutti i gradi di giudizio, sempre con assoluta determinazione per affermare la propria innocenza, anche di fronte all’evidenza di prove contrarie. 
Ora che il conto con la giustizia è saldato questa donna, questa madre implora l’oblio, il silenzio intorno a sé. Il dolore, dice, non si cancella ma i ricordi e le sofferenze patite possono invocare la pietà del silenzio. E tuttavia il giallo di Cogne, per quel che la riguarda, resta intriso di misteri e segreti inespugnati. 
La ricerca di rivelazioni, in questi casi, è implacabile: avvolta negli sciarponi di lana per isolare il freddo dell’Appennino Annamaria è destinata a incontrare ancora sguardi sghembi che, muti, la interrogano su quegli attimi. Non sono pochi i misteri rimasti su quella montagna. Ma lei, adesso, torna a chiedere flebilmente di poter essere creduta: «Sono innocente». 
E questa sarà la battaglia più cruda, crudele, e forse ingenerosa, che dovrà affrontare. Il bisogno di pubblica verità, talvolta, confina con la cattiveria esibita, ristretta in un interrogativo: perché lo hai fatto?
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