Paolo Balduzzi
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L’istruzione/ Perché il merito è l’altra faccia della crescita

di Paolo Balduzzi
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Venerdì 11 Ottobre 2019, 00:11
Siamo il Paese che spende di meno in istruzione: addirittura meno di quanto si spenda ogni anno in interessi passivi sul proprio debito pubblico. Siamo all’incirca al 4% di Pil, in entrambi i casi. E siamo anche il Paese in cui poco si investe e, quando lo si fa, poco si riesce a concludere.

Ben vengano dunque le misure del governo destinate alla crescita: a patto, naturalmente, che non siano solo simboliche. E che diventino parte integrante di un pacchetto di crescita economica e di sviluppo equilibrato. Perché la crescita economica non può essere solo fine a se stessa: è necessaria, per garantire il progresso della società e la redistribuzione delle risorse a favore dei più deboli.

Ma il progresso di una società si misura anche nella sua capacità di valorizzare le risorse e i talenti che essa crea e che ha a disposizione. In altre parole, in come si misura il merito. E come si comporta l’Italia a questo riguardo? Ci intristisce ammetterlo, ma la risposta è che lo fa molto male. E non rispondiamo in base a dei pregiudizi, ma lo facciamo nella maniera più scientifica possibile.

Una ricerca promossa dal Forum della Meritocrazia (Niccolò Boggian e Giorgio Neglia), con la collaborazione del sottoscritto e di Alessandro Rosina (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) ha provato a misurare quanto il merito sia importante all’interno di una società. Lo facciamo innanzitutto individuando i pilastri che lo definiscono, e che sono libertà economica, pari opportunità, qualità del sistema educativo, attrattività dei talenti, certezza delle regole, trasparenza e mobilità sociale. E poi misurandone le performance nazionali con indici sintetici. 

I risultati sono purtroppo impietosi per il nostro Paese: da anni occupiamo stabilmente l’ultima posizione, non solo generale, ma rispetto ad ogni singola dimensione del merito. Certo, potremmo semplicemente derubricare questo risultato come l’ennesimo tentativo di parlare male del proprio Paese: uno sport che, lo riconosciamo anche noi, piace a tantissime persone. Ma così facendo correremmo il rischio di ignorare - coscientemente - problemi e sintomi di un Paese che, anno dopo anno, si impoverisce sempre di più. Sia in termini squisitamente economici (la crescita in Italia è ridotta al lumicino, quando i partner europei corrono molto di più), sia in termini dei sogni e delle aspettative delle componenti spesso più qualificate ma meno protette della popolazione: le donne e i giovani. 

Ora, la buona notizia è che in termini di equa rappresentazione del genere femminile nelle posizioni apicali delle società e nelle istituzioni si sono fatti buoni progressi negli ultimi anni, anche se ancora molto resta da fare in campo occupazionale. Siamo ben lontani da uno scenario in cui ogni donna sarebbe libera di scegliere e di programmare la propria vita lavorativa e famigliare senza la paura che l’una pregiudichi l’altra. 

Ma, e la nostra ricerca lo riconosce, i miglioramenti ci sono stati. E ne siamo felici. Nulla invece sul fronte dei giovani. Con un evidente paradosso: le donne ottengono rappresentanza attraverso quote di genere, una misura forse non ideale ma in fin dei conti necessaria per compensare squilibri immotivati e anacronistici. Ma proprio le donne, volendo, avrebbero già da sé un forte potere politico: compongono circa il 50% dell’elettorato, potrebbero coalizzarsi nella società o nel parlamento - anche tra partiti diversi - per sostenere politiche famigliari più moderne e condizioni lavorative più dignitose.

I giovani invece non hanno nemmeno questa possibilità. Ignorati dai politici, se non quando si tratta di partecipare a qualche convegno o di racimolare qualche voto; esclusi dalle istituzioni, cui si accede solo dopo i 25 anni (Camera) o i 40 anni (Senato). Se dei numeri potessero illustrare il disagio e il dramma delle generazioni più giovani, sarebbero questi: secondo i dati elaborati dalla Fondazione Leone Moressa, l’Italia ha perso in dieci anni circa 500.000 italiani, al netto di coloro che nello stesso periodo sono rientrati in patria; il 50% di questi italiani ha tra i 15 e i 34 anni.

Al di là dei costi economici, comunque rilevanti, di un esodo di queste dimensioni, resta evidente il costo sociale, per un Paese che invecchia senza alcuna prospettiva. Una buona idea potrebbe essere la proposta di abbassare l’età del voto a 16 anni: ma, sia chiaro, sarebbe più che altro una misura simbolica, un forte stimolo alla formazione dei giovani, alla presa di coscienza dei loro problemi e del loro potere, ma dalla portata ovviamente insufficiente per ricordare a tutti che il futuro, in una società, deve contare ancora qualcosa. Quanto ci metterà il legislatore a rendersene conto?
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