Paolo Balduzzi
​Paolo Balduzzi

Investimenti, non tasse/ L’Europa e i pericoli del radicalismo ambientalista

di ​Paolo Balduzzi
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Giovedì 12 Dicembre 2019, 00:15
La nuova Commissione europea ha posto sin dall’inizio della sua esperienza una grande enfasi sulle sfide ambientali e climatiche che ci attendono; e, proprio ieri, ha presentato in una sessione straordinaria del Parlamento europeo i primi dettagli dello European Green New Deal. 

La presidente Von der Leyen, presentando questo programma, ha sottolineato la visione della Commissione sul tema, vale a dire l’ambizioso programma di rendere l’Europa il primo continente neutrale dal punto di vista climatico entro il 2050, nonché le azioni più concrete per raggiungere questo risultato: superamento dell’uso delle fonti energetiche fossili, sviluppo dell’economia circolare, azzeramento dell’inquinamento chimico, sostenibilità delle politiche alimentari, mobilità intelligente nelle città e molto altro. 

Piuttosto sorprendentemente, poco è stato detto degli strumenti, vale a dire delle specifiche forme di finanziamento che tutto ciò renderebbero possibile. Al solito, anche le migliori intenzioni in politica sembrano scontrarsi con l’incapacità di considerare gli ovvi vincoli di bilancio. Eppure il parallelismo dovrebbe essere evidente. Il primo insegnamento nei libri di economia è che viviamo in un mondo di risorse che sono scarse.

E medesima affermazione è riportata in qualunque trattato di ecologia. La lotta per accaparrarsi le risorse a disposizione è già cominciata: e il primo effetto di questa tensione è la formulazione del meccanismo di equa transizione (“Just transition mechanism”). 

Si tratta di risorse destinate a favorire la decarbonizzazione delle economie, delle regioni e dei settori più coinvolti: una cifra ingente, compresa tra i 35 i 100 miliardi l’anno, a seconda degli specifici strumenti che verranno usati - green bond, prestiti della Banca europea per gli investimenti, un piano di investimenti europeo ad hoc, ma anche finanziamenti da parte degli stessi Stati membri - e che saranno resi noto solo a inizio 2020.

Il rischio di questi sussidi è che, con la scusa di incentivare comportamenti virtuosi, potrebbero in realtà premiare proprio quei Paesi che più furbi e pigri sono stati negli ultimi anni e meno hanno investito in fonti energetiche alternative (Germania a Polonia su tutti). Ma non è questo l’unico problema. Come accennato in precedenza, anche la scelta degli strumenti deve essere ragionevole.

Gli strumenti di finanziamento non possono che essere imposte e sussidi diretti, incentivi a investimenti, debito. Sussidi diretti e imposte non funzionano: i primi, come evidenziato ormai dalla letteratura economica, creano solo inefficienze persistenti; le seconde creano eccessive distorsioni in economia, o attraverso una cattiva allocazione delle risorse oppure attraverso una iniqua distribuzione del carico fiscale.

Tuttavia, la politica è tradizionalmente molto affezionata allo strumento dell’imposta; peraltro, in questi casi si cerca di addolcire la pillola parlando di tasse ambientali o ecologiche, con tutte le varianti del caso (nel nostro Paese, ad esempio, la sugar e la plastic tax). L’idea, suggestiva, è che siano strumenti quasi magici, contemporaneamente in grado di raccogliere gettito - per finanziare la politica ambientale o per diminuire altre imposte - e di limitare il ricorso a comportamenti ritenuti negativi.

Questa teoria del “doppio dividendo” si scontra però con i dati: o le imposte disincentivano il comportamento dannoso, ma allora non raccolgono gettito; oppure non lo disincentivano affatto, raccogliendo gettito e aumentando la pressione fiscale ma senza risolvere alcun problema ambientale.
 
Al contrario, incentivi agli investimenti, sia per il pubblico sia per il privato, appaiono le strade più percorribili. Nello specifico, per gli Stati membri l’ideale sarebbe di poter escludere dal calcolo dei deficit strutturali proprio queste tipologie di spese. Una sorta di golden rule che, nell’attesa di ridefinire nei prossimi mesi le regole del Patto di Stabilità e Crescita, forzi un virtuoso spiazzamento di risorse verso l’innovazione ambientale.

Sarebbe davvero l’ossigeno di cui le economie, le finanze pubbliche, l’Europa e i suoi cittadini avrebbero più bisogno. È indubbiamente un segnale negativo – e stimola un certo pessimismo - il fatto che la Commissione, sollecitata proprio su questo, abbia preso tempo e rimandato la decisione al prossimo anno.
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