Paolo Balduzzi
Paolo Balduzzi

Pensioni e retorica/ La differenza dimenticata tra previdenza e assistenza

di Paolo Balduzzi
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Sabato 28 Dicembre 2019, 00:00
Il 2019 si chiude, in Italia e in Europa, all’insegna delle pensioni. In Francia, ormai da tre settimane, impazzano scioperi e proteste a seguito di una proposta di riforma ora già parzialmente ritrattata; in Italia, lo sappiamo bene, il cantiere previdenziale non chiude mai. Ne è un esempio lampante il dibattito dell’ultimo anno su “Quota 100”: una riforma che, contrariamente alla necessità di tenere sotto controllo la spesa pubblica, ha fornito la possibilità di anticipare il pensionamento a una specifica categoria di lavoratori. 

Certo, mettere mano al sistema previdenziale per adeguarlo al nuovo contesto economico e demografico non rende né simpatici né popolari. E non bisogna nemmeno nascondere la testa sotto la sabbia: riformare il sistema significa renderlo meno generoso che nel passato. È quindi evidente che le future e, parzialmente, anche le correnti generazioni che sono coinvolte nelle riforme siano svantaggiate rispetto alle precedenti. Ma questo non perché il legislatore sia diventato improvvisamente più severo o incapace. Al limite, è vero il contrario: è stato il legislatore di ieri a essere troppo generoso, o quantomeno eccessivamente ottimista. Il sistema previdenziale pubblico, nato esattamente cento anni fa come sistema a capitalizzazione e basato sui fondi pensione, si è via via trasformato prima in un sistema misto e poi, tra il secondo dopoguerra e i primi anni ’70, in un sistema completamente a ripartizione. 

È stata una transizione molto gradita a livello politico perché ha permesso di elargire trattamenti molto generosi, non giustificati da alcun fondamentale economico e tutti a carico delle future generazioni. Un illusorio “pasto gratis”, che prima o poi avrebbe presentato il conto in termini di aumento insostenibile dei contributi previdenziali o di contrazione dei benefici pensionistici.
Quel futuro è arrivato, e non certo oggi. Eppure né la politica, né gli addetti ai lavori sembrano rendersene conto. Ne è la riprova anche l’intervista di ieri del presidente dell’Inps, pubblicata dal Messaggero: la logica che emerge è quella di un sistema ben più sano di come venga presentato e in grado di continuare a mantenere le stesse promesse di un tempo, salvo piccoli aggiustamenti. Non è affatto così, ed è tempo di stracciare questo velo di ipocrisia. Usiamo quell’intervista non certo per colpevolizzare Pasquale Tridico ma perché, appunto, rappresenta in qualche modo una impostazione sulle pensioni che va decisamente superata.

Innanzitutto in Italia si spenderebbe addirittura poco per pensioni, perché gran parte della spesa comprende quella per assistenza e perché sarebbe al lordo dell’Irpef. Tutto vero, ci mancherebbe: ma i confronti internazionali che tengono conto anche di queste correzioni ci posizionano ancora tra i Paesi in cui più si spende. Tuttavia, di questa fine e corretta distinzione tra assistenza e previdenza tutti sembrano dimenticarsi quando si parla del valore delle pensioni erogate, concludendo frettolosamente che i pensionati italiani siano troppo poveri. Mi felicito con i lettori ultrasessantenni, cui sto per dare una splendida notizia: i poveri tra di loro sono pochissimi. Secondo l’Istat, sono infatti le famiglie con figli minori quelle per cui l’incidenza di povertà assoluta è massima; mentre questa poi decresce fino ad essere minima tra coloro che hanno più di 65 anni. Non solo: se si guarda ai redditi pensionistici, vale a dire della somma delle pensioni percepite da ogni pensionato, si scopre che i pensionati che hanno un reddito pensionistico inferiore ai 1000 euro sono solo il 40%. E in questo 40% sono compresi anche e soprattutto i percettori di trattamenti assistenziali (quindi bassi per definizione). Altrettanti sono i pensionati che hanno un reddito compreso tra i 1000 e i 2000 euro; e ben il 20% quelli con un reddito pensionistico superiore ai 2000 euro mensili. In media, nel 2017, il reddito netto di un pensionato era pari a circa 14.600 euro (quasi 18.000 euro lordi). Non esattamente pochi. 

Ma continuiamo: il meccanismo di calcolo contributivo garantisce un sistema in equilibrio finché viene rispettata la cosiddetta equità attuariale, cioè fino a quando la somma dei contributi versati nel corso della vita lavorativa eguaglia la somma delle prestazioni previdenziali che un lavoratore dovrebbe ottenere in media. Questa equità attuariale, il cui principio e la cui correttezza sembrano probabilmente ovvi anche ai non addetti ai lavori, è stata sistematicamente ignorata dal legislatore fino al 1995. E comunque sostanzialmente inapplicata fino al 2012. Chi va in pensione, ancora oggi, ottiene in media ben più di quanto ha versato all’Inps nel corso della propria vita lavorativa. Ancora: per integrare i contributi previdenziali dei giovani, purtroppo spesso caratterizzati da irregolarità occupazionale, si possono essere usati contributi volontari da parte dei genitori o dei nonni. Soluzione doppiamente sbagliata. Da un lato, perché sembrerebbe quasi che siano le vecchie generazioni a mantenere il sistema previdenziale, quando invece è proprio vero il contrario.

Sono i pensionati che devono ringraziare i lavoratori più giovani per i privilegi di cui hanno potuto godere. Dall’altro, perché in questo modo condannerebbe comunque i poveri alla povertà, potendo costruirsi una pensione solo chi ha una famiglia che se lo può permettere. Sia chiaro: ognuno di noi ha una storia personale che sicuramente va oltre le statistiche. Anche chi ha lavorato solo 15 anni, sei mesi e un giorno non penserà mai a se stesso come un privilegiato: perché la sua pensione è sicuramente molto bassa e perché in fin dei conti non ha rubato nulla: ha solo applicato le regole esistenti. Ma la politica, quella coraggiosa e lungimirante, non può ragionare per casi singoli: può – anzi, deve – stilare norme generali che poi tengano conto di opportune eccezioni (come la tipologia di lavoro). Queste norme non possono più ignorare né l’esistenza in Costituzione di un vincolo di bilancio né i principi di uguaglianza formale e sostanziale contenuti sempre nella nostra Carta. Allora forse anche la Corte costituzionale si accorgerà finalmente che quelli che ha sempre difeso non sono semplici “diritti acquisiti” bensì “privilegi acquisiti”. E che forse potrebbero davvero essere toccati per rendere il sistema pensionistico più equo e rispettoso delle aspettative delle generazioni più giovani.
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