Paolo Balduzzi
Paolo Balduzzi

Un divorzio ordinato per attutire il trauma

di Paolo Balduzzi
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Venerdì 18 Ottobre 2019, 00:09
Che sia la volta buona? Tre anni - e tre premier - dopo il referendum britannico sulla Brexit, sembra che Regno Unito e Unione Europea siano davvero vicine all’accordo finale: un accordo che potrebbe scrivere la parola fine a questa lunga trattativa, nonché a uno dei periodi più surreali degli ultimi decenni nella politica d’oltremanica. 
L’ultimo grande scoglio da superare, la soluzione sul backstop in Irlanda del Nord, potrebbe mietere vittime: gli Unionisti nordirlandesi del Dup, di sicuro, non ne saranno entusiasti; ma in generale anche la Scozia, un territorio da sempre contrario alla Brexit, reagirà negativamente. Tuttavia, questo accordo potrebbe davvero - e finalmente - superare il voto parlamentare di Londra, il cui esito non è ancora affatto scontato ma, una volta tanto, né in positivo né in negativo. 

Non ci nascondiamo: abbiamo interpretato e raccontato questo periodo come una sconfitta sia per il Regno Unito sia, almeno a tratti, per l’Unione Europea. E tanto dal punto di vista aggregato quanto dal punto di vista dei singoli cittadini. Il Regno Unito esce infatti da questa trattativa più povero di quando ci è entrato: il Pil è inferiore e il Paese meno attrattivo che in passato.

Inoltre le promesse – e le premesse – del voto referendario son state in gran parte disattese e, ma concediamo il beneficio del dubbio, troppe notizie false potrebbero aver condizionato la campagna referendaria. L’Unione Europea ha accarezzato più volte la tentazione di umiliare un partner che non hai mai avuto il coraggio di integrarsi come gli altri, rifiutando la moneta unica e anche, ma questa ormai è una sua tradizione, sistemi di guida e di misurazione. 
Ma che senso avrebbe punire oltremodo i Paesi che decidono di andarsene? Non sarebbe paradossalmente un segno di debolezza da parte dell’Unione?

E che messaggio darebbe ai Paesi che si affacciano ai confini europei e che stanno valutando se aderire o meno? Inoltre, ci sono stati e ci sono milioni di cittadini, non solo europei e moltissimi italiani, che hanno scommesso sulla Gran Bretagna e sul suo modello di promozione sociale, rappresentato specialmente da un sistema di istruzione post graduate che ha attirato studenti da tutto il mondo (Europa, India, Cina e anche Stati Uniti), li ha formati in maniera eccellente e li ha poi spesso saputi anche valorizzare trattenendoli sul proprio territorio. 

Persone il cui destino sarà più incerto, d’ora in poi, ed esperienze che meno facilmente e felicemente saranno replicabili dalle generazioni future. Abbiamo raccontato tutto questo, dicevamo. Ma allo stesso modo dobbiamo arrenderci, ed è giusto farlo, a un processo democratico che questo esito ha desiderato e che questo esito, se il voto di sabato lo confermerà, finalmente otterrà. 

Resta da interrogarci su quale sarà il destino per la Gran Bretagna che se ne andrà. Ci auguriamo roseo, naturalmente, per i suoi cittadini e per i nostri connazionali che lì ancora studiano, lavorano e vivono. Ma temiamo molto difficile, sia per l’evidente debolezza strutturale che un Paese così isolato può avere nel mondo sia alla luce dell’evidente inadeguatezza di una classe politica eccessivamente ideologica e autoreferenziale. 

Se il sogno dei brexiter era quello di guardare agli Stati Uniti o ai Paesi del Commonwealth come sbocchi di mercato e come partner privilegiati, allora temiamo che si tratti di pia illusione. La Gran Bretagna ha costruito la sua fortuna nel vecchio continente vendendo attività (l’istruzione, appunto; ma anche servizi finanziari e commerciali) che certamente sarà difficile ricollocare in un mercato ben più sviluppato su questi fronti, come quello statunitense. E il Commonwealth è forse solo un ricordo dell’età imperiale: basti pensare come, a ben vendere, le vecchie colonie della corona britannica possono ora vantare economie, se non più sviluppate, almeno più dinamiche e potenziali di quella londinese. 

E quale sarà invece il destino dell’Europa, un progetto ancora in equilibrio tra volontà di colmare evidenti gap democratici e dibattici tecnici sulle regole fiscali che scaldano il cuore solo a burocrati e addetti ai lavori? La stagione sovranista, culminata proprio col referendum sulla Brexit, sembra aver ormai esaurito la sua forza. Ma i problemi di coesione dell’Unione non possono considerarsi finiti. 

Se vogliamo trarre un insegnamento finale da tutta questa vicenda, è che nulla dura di eterno, né nelle nostre vite né tantomeno nelle vicende della storia umana e della politica. Avere gli strumenti istituzionali e politici per reagire agli choc è un insegnamento che ogni paese e istituzione dovrebbe ricordare. Per evitare che le conseguenze di infinite incertezze e incapacità decisionali si riflettano sulla qualità della vita e sui sogni dei propri cittadini.
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