Oscar Giannino

Il sonno della ragione/ Termovalorizzatori, ritardo che indigna

di Oscar Giannino
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Mercoledì 12 Dicembre 2018, 00:06 - Ultimo aggiornamento: 08:51
L’incendio che è divampato nell’impianto sulla Salaria a Roma peggiora drammaticamente un problema storico.

Il problema che da anni si trascina nella Capitale è la mancata chiusura del ciclo di trattamento dei rifiuti. Mentre in grandi capitali europee, come Londra e Parigi, quasi il 100% dei rifiuti viene da un paio di decenni integralmente trattato, recuperato e riciclato entro impianti ubicati all’interno o poco fuori la cinta metropolitana, a Roma le 4500-5000 tonnellate di produzione giornaliera per oltre la metà devono essere indirizzate fuori. Di queste, dalle 600 alle 800 tonnellate giornaliere erano convogliate nell’impianto andato a fuoco, per oltre 200 mila tonnellate l’anno. Che ora si aggiungeranno a quelle per cui la Capitale dipende dal resto d’Italia e dall’estero. 

Purtroppo, è uno sbilancio drammatico. Frutto della miopia pluridecennale. E dopo la chiusura di Malagrotta, proprio quando iniziava la parabola del sindaco Raggi, si sapeva benissimo che il tempo della decisione per nuovi impianti diventava necessariamente più rapido. Invece, al contrario, sono ruotati gli assessori e i vertici dell’Ama, ma il problema si è aggravato. E in taluni periodi dell’anno peggiora ulteriormente, perché gli impianti del Nord verso cui si avviano i rifiuti non trattati o solo parzialmente trattati di Roma entrano in regime di manutenzione, e l’intera flotta di autoveicoli destinati alla migrazione dei rifiuti capitolini resta impegnata con il carico a bardo, e di conseguenza la raccolta nella Capitale rallenta e si ferma: ecco spiegata la ragione del periodico ammassamento per le strade di cassonetti strabordanti e rifiuti a terra, che negli anni di Raggi sindaco non è per nulla venuto meno.
Dei 497 kg di rifiuti annui pro capite prodotti in Italia nel 2017, oltre 123 in media finiscono ancora in quelle bombe tossiche che sono le discariche di materiali non pretrattati. In Germania, dei 657 kg annui pro capite in discarica vanno solo 9 chili. Ed è facile capire il perché: nei Paesi avanzati d’Europa - come Germania, Olanda, Svezia, Danimarca e Norvegia - la percentuale di trattamento finale in inceneritore, dopo i picchi di raccolta differenziata e recupero separato delle materie riciclabili, varia tra il doppio e il triplo dei 90 chili scarsi dei 457 prodotti pro capite annualmente nel nostro Paese. Sono i dati dunque a dimostrare che raccolta differenziata, recupero circolare del riciclabile e incinerazione vanno insieme nei modelli avanzati di trattamento a ciclo chiuso dei rifiuti. Noi invece continuiamo ad avere una fortissima opposizione ai termovalorizzatori, come testimoniato solo tre settimane fa dall’ultima polemica tra 5 Stelle contrari e Lega favorevole. Col bel risultato che stentiamo nella differenziata, non abbiamo abbastanza termovalorizzatori, continuiamo a dipendere dalle discariche, e anche gli impianti di trattamento bio-meccanico come quello andato a fuoco ieri a Roma sono solo mezze risposte, restando irrisolto in essi il problema del percolato e di materie da trasferire altrove per l’incinerazione. 

Sui processi tecnologici e sui rischi connessi alla lavorazione di tutti i diversi segmenti di materiali che confluiscono nei rifiuti urbani, i pregiudizi hanno alimentato da una parte il miglior terreno per continuare a usare disastrose discariche senza rifiuti pretrattati, al fine di diminuirne la frazione umida e renderli biologicamente stabili, discariche che si sono rivelate bombe a cielo aperto e per le falde freatiche. D’altra parte è così che si è finito per creare spazio per le ecomafie, che insistono però soprattutto sui rifiuti industriali, materia sulla quale storicamente le colpe pregresse del Nord sono rilevanti, tanto per ricordare che nessuno è immune da responsabilità. Il no ai termovalorizzatori appartiene purtroppo allo stesso capitolo del no a tutte le grandi opere infrastrutturali: un no ostinato e ideologico alla lezione di efficienza, salute e sicurezza che viene dai Paesi più avanzati. 
Tornando a Roma, nel novembre 2017 la sindaca Raggi lanciava un grido d’aiuto a tutte le Regioni d’Italia, accusandone alcune di indifferenza rispetto alla mano urgente che serviva alla Capitale. E ieri, dopo 13 mesi, il copione si è puntualmente ripetuto. Ma perché, in definitiva, altre Regioni che da anni hanno chiuso il ciclo, facendo scelte concrete su impianti e processi di recupero, producendo energia elettrica e ricavando proventi dai propri centri di smaltimento, dovrebbero continuare a considerare emergenza da soccorrere per motivi umanitari quella che è solo una situazione figlia di perdurante drammatica incapacità di assumere le decisioni giuste? 
Da queste colonne possiamo solo esprimere solidarietà ai romani, costretti a convivere da tempo troppo lungo con le montagne di rifiuti, a respirarne il tanfo, e a respirare anche di peggio com’è avvenuto ieri, per via della combustione dei rifiuti andati a fuoco. Il tutto mentre i romani pagano la Tari più alta d’Italia, con 270 euro di spesa pro capite rispetto ai 217 di Milano e 201 euro di Bologna. Perché ovviamente non avere chiuso il ciclo significa doversi accollare enormi costi per trasferire altrove l’immondizia. Senza aver risolto il problema a cittadini e turisti. Sono tutti errori che non consentono più di chiedere solo aiuto: richiedono invece classi dirigenti capaci di prendere decisioni serie, entro tempi rapidi, e senza più invocare colpe altrui. 
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