Oscar Giannino

Il peso delle imposte/ Un salasso per finanziare il Reddito e Quota 100

di Oscar Giannino
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Sabato 29 Dicembre 2018, 00:08
Grazie alla valutazione di quel salutare organo tecnico indipendente che è l’Ufficio Parlamentare di Bilancio guidato da Giuseppe Pisauro, ora lo possiamo affermare come un dato certificato. Come anticipato tre giorni fa dal Messaggero, per effetto della legge di bilancio la pressione fiscale salirà l’anno prossimo dal 41,9% del Pil al 42,4%. E continua sia pur di frazioni di punto a salire rispetto al 2018 anche nel 2020 e 2021, al netto dei mostruosi aumenti di Iva e accise per 23 miliardi nel 2020 e quasi 29 miliardi nel 2021, che la farebbero addirittura schizzare alle stelle. E che non si capisce davvero – stante l’ammontare storicamente senza precedenti - come potranno essere neutralizzate senza traumi. 

In più, mentre per far crescere il Pil potenziale serviva una manovra soprattutto rivolta a innalzare considerevolmente gli investimenti pubblici e gli incentivi a quelli privati, la sforbiciata necessaria per adeguarsi all’ultimo secondo utile al rispetto delle regole Ue ottiene l’effetto di invertire il segno anche degli stanziamenti per gli investimenti: da un sia pur modesto miliardo e 400 milioni in più stimato dall’Upb per il 2019, si passa invece a una riduzione di un miliardo in meno.

Il premier Conte, nella sua conferenza stampa di fine anno, ha continuato a dire che no, le tasse non salgono se non per banche, assicurazioni e settore gioco.
Ma gli aggravi per le imprese ammontano a circa 7 miliardi, oltre che per gli aumenti al settore del gioco legale per la stangata di 4 miliardi a banche e assicurazioni, e per la soppressione dell’Ace e per la mancata partenza dell’Iri, due misure che graveranno parecchio sulle piccole imprese. È ovvio che sia impossibile per le banche evitare di traslare ai clienti – cioè imprese e famiglie – questo aggravio imprevisto, e che per le piccole imprese le due agevolazioni cancellate, sommate al ridimensionamento della platea e degli stanziamenti per gli investimenti 4.0 e per ricerca e sviluppo, significheranno minori margini di crescita e occupati.

Ora che tutto questo è chiaro, possiamo chiederci se questa impostazione finanziaria valesse la candela. Che è sostanzialmente una: la difesa a spada tratta, sia pur con ingente diminuzione dei fondi previsti inizialmente, dei due pilastri essenziali cari a Lega e Cinque Stelle. Cioè i prepensionamenti a quota 100 per Salvini, e il reddito di cittadinanza per Di Maio. Potremo entrare davvero nel dettaglio tecnico delle due misure quando conosceremo il testo delle misure attuative – si parla di un decreto legge - che ne definirà finalmente tutti i particolari, mancanti in legge di bilancio mancano malgrado mesi e mesi di ipotesi diverse. Ma intanto un bilancio politico si può trarre.
Ed è questo. Alzare il gettito fiscale - quindi aumentare le tasse - e diminuire gli investimenti al solo scopo di finanziare Quota 100 e il reddito di cittadinanza non è uno scambio proficuo per la crescita dell’Italia. Non solo perché il significativo aumento di spesa corrente previsto per entrambe le misure non ha ovviamente l’effetto moltiplicatore sul Pil che sarebbe venuto da un equivalente aumento degli investimenti. E neanche per il fatto, pur grave, che per tenere in piedi i due pilastri si è dovuto far ricorso anche a misure francamente odiose, come il taglio a milioni di italiani della rivalutazione delle pensioni in essere, in maniera crescente a partire da quelle superiori a tre volte l’assegno minimo di poco più di 500 euro al mese. 

Se ci teniamo strettamente al criterio politico, infatti, è il caso anche di distinguere tra i due pilastri. Il reddito di cittadinanza ha in sé una contraddizione che sarà difficile sanare, visto che la sacrosanta lotta alla povertà va realizzata e misurata con strumenti e metriche completamente diverse dalle politiche attive del lavoro, e invece in questo caso le si confonde pericolosamente. Ma in ogni caso questa misura – vedremo come attuata – finirà almeno in parte sperabilmente considerevole nelle tasche di alcune centinaia di migliaia di italiani – non i milioni di cui si era parlato – che effettivamente se la passano male e malissimo.

Per quanti dubbi possiamo avere sulla confusione dello strumento, e noi qui li abbiamo, è impensabile restare insensibili al fatto che comunque il flusso di risorse servirà ad alleviare quel disastro che ci ha purtroppo reso il Paese europeo con il maggior rischio di accelerazione dell’esposizione di fasce crescenti di popolazione alla povertà.
Un giudizio completamente diverso va invece riservato ai prepensionamenti e a Quota 100, tenacemente voluti dalla Lega. Non solo in questo caso si muovono miliardi a favore di chi un reddito e un lavoro ce l’ha eccome, per pagare pensioni anticipate che in un sistema a ripartizione saranno a carico delle coorti di lavoratori più giovani, a bassa contribuzione visti i loro bassi salari e bassa continuità contributiva. E’ proprio il senso politico complessivo di questa misura, l’arcifamosa “rottamazione della riforma Fornero” che si vuole intraprendere a tutti i costi, a risultare molto meno accettabile dello stesso problematico reddito di cittadinanza.

Perché la riforma Fornero approvata sotto il governo Monti comportò certo l’errore di sottovalutare in maniera terribile il problema degli esodati. Ma visto che quel problema è stato risolto con successive ondate di salvaguardie, ora fare a pezzi la riforma Fornero significa solo inabissare ciò che è stato il più rilevante contributo a stabilizzare e rendere sostenibile nel medio-lungo periodo la spesa previdenziale, che nel nostro Paese non solo è di diversi punti superiore alla media dei Paesi europei, ma che da oggi tornerà nelle proiezioni future ad avere andamenti di crescita ulteriormente preoccupanti. 

Si tratta di una misura non solo pericolosa per la sostenibilità complessiva futura del debito italiano. E’ in piena contraddizione con la nostra demografia asfttica e con le attese di vita che restano per fortuna crescenti. E va in direzione opposta all’evidenza empirica di tutti i Paesi Ocse a maggior crescita: a crescere di più sono quelli in cui vi è insieme un’alta partecipazione al mercato del lavoro sia delle coorti più anziane, sia di quelle giovanili, sia di quelle femminili. Lo scambio meno occupati over 60enni per più occupati giovani non è mai avvenuto, in nessun Paese al mondo: le competenze non sono ovviamente le stesse, e vieppiù in un Paese in cui l’offerta formativa resta sideralmente lontana da ciò che viene richiesto per l’occupabilità nelle aziende italiane.
Dispiace dunque dirlo. Ma va detto. Tutto ciò che è noto induce a pensare che no, la difesa a spada tratta della promessa elettorale di Quota 100 non è un gioco che valga la candela. Speriamo solo che la congiuntura internazionale non continui a rallentare come sta avvenendo negli ultimi due trimestri. Perché a quel punto abbandonare questa impostazione potrebbe rivelarsi la più seria delle scelte da fare.
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