Oscar Giannino

Washington-Pechino/C’è il controllo della sicurezza dietro l’ultima sfida sui dazi

di Oscar Giannino
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Venerdì 7 Dicembre 2018, 00:21
Ieri alla notizia dell’arresto da parte degli Stati Uniti della figlia del fondatore del colosso cinese Huawei, i mercati finanziari hanno reagito con crolli pesanti, dall’Asia agli Usa all’Europa. Ma al di là della finanza la notizia rischia di impattare fortemente l’economia reale. E ha una sintesi che esprime i nostri tempi.

La guerra commerciale di Trump alla Cina cominciò un anno fa dando una sberla potente alla società cinese Zte, accusata di violare le sanzioni nei confronti di Iran e Corea del Nord ma in realtà sospettata di “succhiare” tramite la sua componentistica dati e brevetti dalle dorsali tecnologiche americane che applicavano il suo software. Trump sperò che i cinesi capissero, e dopo qualche mese davanti alla Zte che rischiava il fallimento dopo il bastone passò alla carota, limitandosi a una sanzione alla società cinese da 1,3 miliardi di dollari e di vederne cambiato il management.

Ma i cinesi tennero duro. E ora, dopo quattro round successivi di sanzioni incrociate per un ammontare di oltre 400 miliardi di dollari di interscambio tra le due potenze, e con un commercio mondiale che da più del 5% del 2017 scende sempre più tendenzialmente sotto il 3%, Trump si trova addirittura in mano un ostaggio di prestigio, per far capire alla Cina che deve davvero diminuire il suo surplus commerciale verso gli Usa.


E smetterla con il furto di proprietà intellettuale e di dati sensibili che hanno un duplice uso, non solo industriale e commerciale ma a fini militari. L’ostaggio è Meng Wanzhou, vicepresidente e direttore finanziario globale del colosso delle tlc cinese Huawei, nonché anche figlia del suo fondatore, compresa in una lista di manager cinesi diramata da due mesi alle autorità giudiziarie dei Paesi alleati sotto l’accusa, ancora una volta . di aver aggirato le sanzioni all’Iran.

L’ironia nel paradosso è che l’arresto della potente manager cinese sia avvenuto a Vancouver in Canada esattamente mentre, il primo dicembre al G20 in Argentina, Trump e Xi JinPing erano a cena e la leadership cinese per la prima volta sembrava impegnarsi ad aumentare le importazioni dagli Usa.
<HS9>Ovviamente, per la Cina è uno scacco intollerabile. Oggi stesso, quando in Canada si terrà l’udienza per fissare la cauzione per un rilascio di Meng condizionato al fatto che non abbandoni il Paese visto che poi i giudici dovranno esaminare la richiesta di estradizione americana, si capirà quale sia la strategia delle autorità di Pechino. Ma per Trump è un colpo gobbo insperato, perfettamente legittimo e legale per quanto faccia infuriare i cinesi.
<HS9>Del resto solo dieci giorni fa Washington aveva ricordato agli alleati che ospitano basi americani Usa l’invito a escludere Huawei dalle infrastrutture di tlc dalle quali passano dati sensibili. Un invito che viene dopo che, negli anni, migliaia di pagine di analisi dell’intera intelligence community USA sono stati dedicati alla ragionevole certezza dell’appropriazione in maniera “coperta” di dati sensibili, proprio attraverso la crescente presenza di imprese cinesi come Zte e Huawei nelle infrastrutture di rete dei Paesi occidentali. 

<HS9>Da inizio 2018 alla Commissione Difesa del Senato americano sono stati presentati ben quattro diversi rapporti su casi sospetti di aziende americane, alcune delle quali fornitrici del Pentagono, nella cui rete interna ed esterna vi sono apparati e componenti forniti da aziende cinesi considerati del tutto capaci di assorbire, isolare e trasmettere in forma crowd segregata immense quantità d’informazioni acquisite in maniera “coperta”. 
<HS9>Huawei è la prima sospettata. Non è solo il secondo produttore di smartphone Android nei maggiori Paesi europei, dopo Samsung e con Apple in terza posizione. La sua temibile specializzazione, affinata con investimenti nell’ordine di 50 miliardi di dollari negli ultimi 10 anni,  è quella in apparati avanzati che vengono oggi offerti e acquistati dagli operatori in ben 170 Paesi al mondo. E che anche in Italia l’hanno vista giocare nell’ultimo decennio un ruolo di primo piano nell’avanzamento e nel potenziamento delle reti fisse e mobili di Tim e Vodafone. E che la candidano a essere protagonista anche nella rete 5G, la nuova frontiera della banda larga radiomobile per le cui frequenze il governo italiano ha chiuso l’asta competitiva tra tutti gli operatori incassando di qui al 2022 ben 6,5 miliardi a fronte dei 2,5 che rappresentavano la base iniziale dell’offerta. 

<HS9>E’ proprio la rete ultralarga 5G quella in cui gli Usa non vogliono che i cinesi entrino, nei Paesi occidentali, per l’impiego su vasta scala che essa avrà in settori delicati come il traffico di tutti i dati relativi a internet of things, la nuova frontiera della nanosensoristica diffusa in ogni passaggio produttivo e distributivo della rivoluzione di Industria 4.0. Sono tutte presenze a cui gli Stati Uniti attribuiscono capacità non solo di affinare le tecnologie militari cinesi, ma che abilitano anche a temibili interventi di blocco infrastrutturale di reti essenziali alla sicurezza di ogni Paese occidentale, sia sotto forma di operazioni di hackeraggio di massa da parte di siti “coperti”, che in caso di eventuale vera e propria escalation diplomatico-militare.  

Nazioni come il Regno Unito e l’Australia hanno già accolto l’invito americano. Da noi, non si capisce ancora cosa ne pensi il governo in carica. Sono infatti temi su cui la politica italiana tiene il silenziatore, dopo aver negli ultimi 4 anni abbiamo spalancato la porta alla presenza cinese in molte grandi aziende italiane e aver loro ceduto il 35% di Cdp Reti che detiene un terzo delle reti di Terna, Snam e Italgas. 
<HS9>Certo, abbiamo un gran bisogno di capitali stranieri. Ma la Cina sa come approfittare proprio di Paesi che ne hanno bisogno, per il proprio disegno geopolitico che è planetario.
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