Oscar Giannino

Lezione per tutti/Non saper guidare gli umori nazionali

di Oscar Giannino
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Venerdì 16 Novembre 2018, 00:50
Diciassette mesi di intensa e malagevole trattativa con l’Unione Europea. Dopo 17 mesi, la Gran Bretagna si ritrova ancora una volta politicamente dilaniata come neanche ai tempi della Thatcher. Da due estati il partito Conservatore è spaccato brutalmente su quale sia il significato da dare a ciò che i sudditi di Sua Maestà Elisabetta scelsero nelle urne, cioè riacquisire la piena sovranità e uscire dall’Unione Europea. 

Ora che le 585 pagine della possibile intesa sono state rese note dal negoziatore capo europeo Michel Barnier, il governo di Theresa May torna a puntare dritto sugli scogli, dove rischia di naufragare. Dopo sei ore di drammatico confronto per avere il, via libera del suo esecutivo, quattro componenti del governo si sono dimessi. E il capo della cosiddetta hard Brexit, Jacob Rees-Mogg , ha depositato una richiesta di voto di sfiducia. Se altri 49 lo seguono, e gli hard brexiteers sono almeno 60 a Westminster, e se si somma il fatto che la May si regge solo con gli sparuti i voti degli unionisti nordirlandesi a propria volta ipercritici sulla bozza di accordo, la May va a picco. E a quel punto prima di nuove elezioni scatta a fine marzo del negoziato stabilito dall’articolo 50 del Trattato, e per il Regno Unito l’uscita dalla Ue senza alcun accordo su come disciplinare proprio commercio e diritti aprirebbe la prospettiva di un vero e proprio disastro economico. Per il Fondo Monetario Londra rischia una rapida perdita secca del 6% del Pil, in caso di rottura radicale.

Chi ha votato alle urne per l’uscita era convinto che la classe dirigente dei conservatori sapesse poi dare un significato concreto alla scelta, e conoscesse le soluzioni per realizzare davvero la promessa: cioè che fuori dall’Unione il Regno Unito sarebbe cresciuto di più, liberandosi di pesanti regole e vincoli dipinti in campagna referendaria come tenacemente avversi agli interessi economici britannici, oltre che estranei alla sua tradizione culturale e al suo ordinamento giuridico.

<HS9>Ma alla prova dei fatti Londra si è scoperta del tutto sprovvista di leader e statisti davvero capaci di dire “ciao Europa” rendendo tangibile la prospettiva del guadagno. Una disfatta politica non solo per i Tories: anche il leader laburista Corbyn, con la sua svolta radicalmente di sinistra sui temi sociali, non è mai riuscito a far capire come la pensi e che cosa voglia. Tranne aspettare il crollo della May e dei conservatori.

<HS9>Si deve a questa epocale disfatta, che nei quattro capitoli fondamentali dell’intesa tra May e Barnier abbia di fatto vinto l’Europa e perso Londra. Ciò non può che rilanciare l’oltranzismo di chi accusa la May di tradimento, ma anche alimentare le polemiche di chi all’opposto è invece per restare in Europa, rifacendo un referendum ma senza esporsi ai danni che comunque l’intesa arreca alla Gran Bretagna. Che ha infatti dovuto capitolare sia sull’entità dell’assegno da staccare per onorare fino alla fine i suoi impegni, nell’ordine dei 50 miliardi di euro. Ha dovuto accettare il compromesso sbilenco per il quale essa resterebbe almeno transitoriamente nell’Unione doganale e l’Irlanda del Nord invece nel mercato unico, per evitare una frontiera interna che spezzerebbe di fratto l’unità del regno. Ma ciò significa per Londra restare soggetta alle regole europee senza poterne aver voce in capitolo, su materie essenziali come l’antitrust, i diritti sul lavoro e gli aiuti di Stato. Vengono comunque meno molti dei benefici per il settore finanziario, e ciò incoraggia la fuga di grandi banche e servizi finanziari verso Francoforte, Milano e Parigi. Ai cittadini europei, il loro pieno eguale dritto come oggi garantito, con giurisdizione suprema della Corte Europea e non britannica. La questione irlandese è una delle più delicate. La Scozia europeista non capisce per quale ragione non debba valere allora un’eccezione anche per lei come quella irlandese. 

<HS9>Senza entrare in mille altri dettagli, il paradosso è evidente: la bozza di accordo rivela che il Regno Unito ha più da perdere che da guadagnare a uscire dall’Europa, il dividendo sembra sparito, ed è per questo che la May accetta e dichiara “senza alternative” soluzioni bruxellesi che servono solo a una cosa: evitare a tutti i costi una hard Brexit che per Londra sarebbe un disastro.
<HS9>Le prossime settimane saranno decisive. Il 25 novembre saranno i Paesi Ue ad esaminare l’accordo in un Consiglio straordinario, e non è detto che Francia e altri non lo vogliano ancora indurire. A quel punto si terrà l’ordalia finale per la May, con il voto a Westminster: di qui lì ad allora saranno a Londra settimane di fuoco e trame machiavelliche, maschere e pugnali.

<HS9>Eppure, la paralisi britannica non parla solo della mancanza di visione delle classi dirigenti d’Oltremanica. Parla anche al caso italiano. Anche in Italia a giugno scorso è nato un governo che dichiara di voler sfidare apertamente le regole europee, e ed è una sfida all’Europa la legge di bilancio che ora rischia di esporci alla procedura d’infrazione e alle sanzioni previste nel caso, per la prima volta applicate a un Paese Ue. 
<HS9>Come nel caso del referendum britannico, perfettamente legittimo come scopo dichiarato. Ma a un patto. Di saper concretamente mostrare che le regole europee sin qui a fatica seguite davvero è meglio violarle, perché solo così si realizza più crescita. Ma allora la manovra per il 2019 avrebbe dovuto essere diversa, più deficit sì ma con un rilancio spettacolare degli investimenti pubblici e più incentivi a quelli privati, invece di un diluvio aggiuntivo di spesa corrente. Anche in Italia come a Londra: chi è partito proponendo una svolta epocale ma non sapesse dimostrarne il vantaggio, finirebbe solo con la testa contro il muro. 
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