Mario Ajello
Mario Ajello

Degrado Capitale/ Caro Nyt, i romani se ne accorgono ma non reagiscono

Rifiuti, a Roma è emergenza: il giallo dei cassonetti bruciati
di Mario Ajello
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Giovedì 27 Dicembre 2018, 00:09 - Ultimo aggiornamento: 11:15

L’italiano inconsapevole e perfino compiaciuto dello sfascio in cui si dimena è un vecchio stereotipo. Falso. E verrebbe da inserire nella categoria fake news la convinzione del New York Times, secondo cui i cittadini romani ormai sono rassegnati e non riescono più a vedere il degrado di spazzatura e inefficienza che li circonda. Ma se davvero sono inconsapevoli e indifferenti alla brutta situazione, perché allora gli abitanti della Capitale non fanno che immortalare in queste ore i cassonetti stracolmi e gli avanzi natalizi non raccolti?

E poi postano le immagini della vergogna sui social insieme alla speranza che non debba essere più così? Ecco, il New York Times ha ragione, ma ha anche torto. È vero che Roma è quella descritta dal loro corrispondente, ma non è vero che i romani non si accorgono della grave crisi della propria città. La conoscono benissimo, ne sono arci-consapevoli, la vivono quotidianamente sulla propria pelle, si chiedono il perché dello sfascio, s’interrogano e cercano di condividere - basta entrare in un bar, frequentare un social, chiacchierare con gli altri durante una tombola tra Natale e Capodanno - la pena e, semmai, la soluzione. Il problema, o meglio il dramma, è appunto quale soluzione trovare. Ed è lì che si blocca il senso di consapevolezza, lì uno stereotipo negativo - non quello individuato dal New York Times che ci prende per babbei ma un altro molto più serio e storicamente radicato - si conferma. Ed è questo: la lucidità di sguardo non accompagnata alla capacità di reazione. 
 


L’immondizia e tutto il resto dovrebbero scatenare, presso una cittadinanza consapevole, un senso di mobilitazione e di protesta, un orgoglio patriottico (Roma è la capitale della nazione e nessun altra città avrebbe mai potuto e mai potrà prenderne il posto) in grado di mettere all’attenzione del mondo la reazione di un popolo per una causa giusta così come il New York Times e altri giornali mettono sotto gli occhi di tutti l’estrema criticità che sta attraversando Roma. 

Il mito di questa città viene infranto e la fascinazione che Roma esercita presso i romani e presso tutti gli altri nel mondo si è spezzata e perciò urge uno scatto di dignità e un “damose da fare” (per dirla in slang) che purtroppo mancano. E non da oggi. Dopo le vacanze, e se la situazione s’aggraverà, avremo finalmente la fuoriuscita dalla lagna (ci lagniamo dai tempi di Giuseppe Gioachino Belli e della decadenza dello Stato pontificio e poi abbiamo ricominciato a torto con l’avvento di Roma capitale post-unitaria)? Avvieremo cioè il riscatto da quel male oscuro che ha impedito alle potenzialità di Roma e dei romani di esprimersi in maniera pragmatica e costruttiva, migliorando il presente e pensando il futuro? 

Non c’è affatto l’inconsapevolezza, insomma: ci sono la lagna e la rabbia. Ma il bar della rabbia - per usare l’immagine del miglior disco di Alessandro Mannarino, un romano vero - non basta e non è degno di una città che ha sempre deciso i destini propri e quelli degli altri. Uno scatto collettivo in più, non solo il clic dello smartphone che immortala il deficit amministrativo, è quello che deve impedire di dare ragione a un personaggio del calibro di Siegmund Freud. Il quale diceva: «Roma ha una storia che scende sempre più in basso, oltre la suburra, oltre la sporcizia». 

La diagnosi del New York Times rappresenta così il segnale (svariate avvisaglie già si erano avute al tempo di Ignazio Marino) della progressiva interruzione del grande rispetto che si portava universalmente verso questa città, non solo per il suo passato ma anche per il resto della sua storia. Alla Capitale d’Italia, prima di questo ripetuto tuffo nel precipizio, o veniva ingiustamente richiesto poco - perché «Roma è semplicemente l’esempio di ciò che accade quando i monumenti durano troppo a lungo», secondo Andy Warhol - o veniva giustificato tutto e da fuori la ammiravano perfino nei suoi vizi peggiori. Henry James diceva infatti dell’Urbe (e bisognerebbe chiedergli i danni): «Si ama la sua corruzione più dell’integrità di altri luoghi». Ma adesso che il mito s’è abbondantemente infranto, andrebbero richieste maggiore serietà di giudizio ai media internazionali e maggiore sensibilità civile a chi s’è adagiato nel downgrading della vivibilità senza mai gridare davvero: ora basta! Quest’urlo è risuonato nelle ultime elezioni comunali? Ma certo. Ma poi? Il mancato cambiamento, a dispetto della discontinuità sbandierata, è diventato un’evidenza incontrastata. Non ha coagulato una opposizione politica. Non ha trasformato in azione la lagna diffusa. Ha spalancato la possibilità di fare esistere un campo di gioco - quello del civismo - disertato però da chi dovrebbe animarlo. 

L’ozio, avvertivano gli antichi, è quello che manda in rovina le città.
E l’ozio oggi è lo s-governo. Ma anche il non farsi carico, da parte di tutti, di una situazione malata e insieme curabilissima. Basti pensare a come era malmessa New York - la città del New York Times - alla fine degli anni ‘70, con il Central Park ridotto a una giungla di spaccio, e a come partendo dalla partecipazione dal basso quellametropoli ha scommesso su se stessa e si è salvata. Roma non deve certo imparare da New York ma non deve neppure dimenticare che ha gli occhi e i riflettori del mondo puntati addosso. E le condizioni per vincere, in casa e fuori casa, ci sono tutte. Basta non farsi sopraffare dall’avvilimento. E rispondere nella maniera giusta alla domanda che Alberto Sordi propone nell’Anno del Signore di Luigi Magni: «Popolo, ma che cosa te sei messo ‘n testa? Ma che vuoi? Vuoi mette’ bocca?». Sì.

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