Mario Ajello
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La malattia infantile/ Il regresso del grillismo dal governo ai gilet gialli

di Mario Ajello
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Mercoledì 9 Gennaio 2019, 00:50
Il re che si fa masaniello è un inedito nella storia europea. Eppure, questo mascheramento da neo-politica si prende la scena con il «non mollate» rivolto da Luigi Di Maio ai gilet gialli. Ma la mossa, e non solo per la montagna di critiche che stanno arrivando dal governo francese e non giovano all’immagine dell’Italia, non riesce. Perché figlia di una incongruità, di una contraddizione, forse di una sindrome. 

Quella che spinge un vice-premier a supplire alle difficoltà della gestione del governo e della fase adulta di un movimento originariamente ribellista - «State facendo quello che abbiamo fatto noi di M5S», ha detto infatti Di Maio ai manifestanti d’Oltralpe» - con il ritorno alla purezza infantile della lotta e alla retorica della piazza stile Vaffa. Perché questo si presume che serva a incassare voti alle elezioni europee e a suggellare il ritorno in trincea del più rivoluzionario di tutti, il Dibba Guevara. 

Lo statista di un Paese accanto che si erge a capopopolo di una jaquerie è la riprova che M5S stenta a superare le proprie radici, a sciogliere il nodo sistema-antisistema di cui è prigioniero e a farsi istituzionale, come sarebbe logico e fisiologico per la leadership di un grande Paese qual è il nostro.

Invece di incitare alla lotta i francesi e di soffiare su un fuoco pericoloso - perdendo l’occasione per muovere critiche meritate a Macron, come ha fatto Salvini, che ha anche stigmatizzato le violenze di Parigi mentre lui no - Di Maio avrebbe potuto fare tesoro di quella protesta per celebrare l’esperimento italiano. Ossia quello di un partito di lotta che approda alla maturità di governo e propone questa trasformazione, questo canone italiano, come esempio per tutti. 

Avrebbe potuto dire Di Maio: noi abbiamo intuito il disagio, lo abbiamo canalizzato evitando che producesse violenza e quindi cari gilet venite nel nostro Paese a vedere come si fa. Il problema è che avrebbero avuto poco da vedere. Perché sembra mancare a M5S - basti pensare allo psicodramma in corso su Tap, Triv, Tav, Ilva e alle continue tentazioni di rituffarsi nella piazza - la maturità e la consapevolezza obbligati per un partito che si è messo alla guida dello Stato. Stare al potere con velleità da contro-potere è l’ossimoro su cui si fonda l’attuale fase grillina e il trend si accentuerà da qui al voto di maggio. Con il rischio di vanificare l’occasione, di crescita culturale e di approdo alla concretezza, che i cittadini hanno dato a questo movimento. 

Il gilet-giallismo sembra così la malattia infantile del grillismo. Un richiamo della foresta che giova magari alla propaganda. Ma segna l’auto-degradazione di un ruolo di governo a una funzione politicista e contiene l’ammissione, poco weberiana, che all’etica della responsabilità si predilige l’etica della presunta convenienza. Al punto da abbassare il proprio rango fino alla subalternità rispetto alla piazza, che semmai un leader e uno statista - quando gli serve, anche se in questo caso si tratta di una piazza straniera - dovrebbe dirigere e usare. 
E svela una debolezza l’endorsement di Di Maio. Quella dell’isolamento nel quadro europeo. Pur di avere qualche sponda in vista delle elezioni, M5S si accoda a un partito che ancora non c’è, quello dei rivoltosi francesi. Immaginando di poter fare asse con loro - che non solo non hanno accettato i complimenti di Di Maio ma sono diversi in tutto dai grillini: basti pensare che quelli insistono sulla protesta fiscale mentre questi sono considerati e si considerano filo-assistenzialisti - mentre i Verdi, i liberali e le altre forze si dicono indisponibili a qualsiasi accordo internazionale. Infischiandosi del fatto che Casaleggio vuole mettere a disposizione di tutti la piattaforma Rousseau. Il quale, in versione Jean-Jacques, viene strumentalmente idolatrato da queste parti, e in Francia molto meno, come guru della democrazia diretta, ma non ha mai teorizzato la sovversione dall’alto. 
 
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