Mario Ajello
​Mario Ajello

La fragilità dell’Europa e quella dell’Italia

di ​Mario Ajello
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Mercoledì 17 Luglio 2019, 00:15
Si è affacciato Tucidide nel discorso di Ursula von der Leyen, e lei lo ha citato così: «Il segreto della felicità è la libertà. Il segreto della libertà è il coraggio». Ma è un Dna all’insegna del coraggio quello della Ue delineata dalla neo-presidente? O sarà invece un codice genetico in sostanziale continuità - al di là dei proclami e di certi aspetti innovativi del personaggio: il suo essere donna anzitutto - con l’esperienza Juncker che ha molto appannato e ingrigito l’immagine dell’Europa?
Anche per raccogliere i voti che le servivano, e alla fine sono stati solo nove in più rispetto alla soglia di maggioranza, segno plateale di debolezza e di future difficoltà, ha spinto su novità e grandi promesse la von der Leyen. Dandosi un profilo “di sinistra” come mai aveva fatto prima un leader dei popolari. Una scelta per tracciare il campo: da una parte noi, quelli del rinnovamento nella continuità; dall’altra i sovranisti, quelli che vogliono cambiare tutto ma non sanno come. 

La divisione politico-culturale tra due Europe: ecco l’incipit della nuova stagione. E non promette bene questa sorta di cortina di ferro, poco adeguata - più che dividere bisognerebbe comporre la frammentazione europea - ai tempi difficili in cui si evince la necessità di un continente più forte.
Ma un continente più forte, rispetto a Russia e America che vorrebbero fungere da morsa, richiede il coraggio della compattezza. 

La Formula VDL, che da ministro della Grande Coalizione tedesca sa maneggiare abilmente questi schemi, è quella di una netta apertura a sinistra. Sia a quella socialista (flessibilità, salario minimo per tutti, indennità di disoccupazione), sia quella dei Verdi (difesa dell’ambiente, lotta al cambiamento climatico, ecologismo che rischia di sconfinare nell’ideologismo), sia a quella di tipo neo-liberale (dimentichiamoci De Gaulle o Chirac) alla Macron nel suo mix di diritti civili e interessi nazionali (e quelli franco-tedeschi spiccano uber alles). 

Con la von der Leyen i tedeschi hanno capito che per evitare l’isolamento hanno bisogno di diventare veramente il centro d’Europa, e allora più europeista di Merkel e anche più a sinistra di Frau Angela: questa la Formula VDL, in cui il socialista Timmermans da vice-presidente esecutivo avrà un ruolo cruciale. 
Nella divisione delle due Europe, l’Italia viene relegata ben oltre i propri demeriti nella parte sovranista e disumanitaria (i passaggi di VDL sull’immigrazione somigliano ad assist alle Ong e la stroncatura dei «regimi autoritari come quello di Putin» è diretta anche agli italiani non allineati), ossia finisce tra quelli che non contano. Una marginalità di cui c’erano tutte le avvisaglie e ora è arrivata la ratifica ufficiale. 

In questa Europa “à la carte” - in cui ognuno dei partner prende qualcosa e all’Italia è stata data, come avvertimento al governo giallo-verde, la presidenza del Parlamento di Strasburgo al Pd - facendo squadra si potrebbe giocare molto meglio. E invece tre Italie si delineano. Quella anti-VDL di Meloni e Salvini (il quale ha fatto di tutto per stare nel gioco grande, ma ogni spiraglio gli è stato chiuso davanti al naso) con il vicepremier della Lega che ha voluto così tirare anche un fendente al premier Conte ormai in pieno allineamento al potere brusselese; quella di Forza Italia che rompe con i partner della Lega e di Fratelli d’Italia in ossequio al Ppe; e quella della strana alleanza (che prefigura scenari di politica interna?) in cui il Pd si sente magna pars del nuovo euro-ordine, mentre i 5Stelle sono saliti sul carro vincente forti della loro estrema debolezza e spinti da un opportunismo pasticciato.

Votando una conservatrice tedesca, europeista convinta, non incline a grandi sconti sulle regole europee e su posizioni decisamente opposte a proposito dei migranti a quelle condivise da grillini e leghisti nel governo giallo-verde. Ed è surreale la spiegazione dei pentastellati che oltretutto sono diventati determinanti più per caso che per strategia nell’elezione della presidente: «La von der Leyen si è spostata sulle nostre posizioni». Ma figuriamoci. 
La frammentazione italiana peserà non poco nella stagione che si va aprendo in Europa. Tra subalternità e irrilevanza. Fare squadra poteva essere un’opzione forte per l’Italia. E invece, no. Nell’Europa che nasce con il baricentro spostato verso un progressismo da milieu tecnocratico, con una estrema fragilità aggrappata a nove voti e senza visioni davvero innovative e coinvolgenti, i bocconi grossi della Commissione e le altre poltrone pesanti le prenderanno i francesi e i tedeschi, gli altri si adegueranno cercando di raccogliere ciò che resta e l’Italia rischia di stare a guardare.
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