Mario Ajello
Mario Ajello

Risollevare il Paese/ Il simbolo del ponte e gli errori da non fare

di Mario Ajello
4 Minuti di Lettura
Mercoledì 29 Aprile 2020, 00:00
Leonardo Sciascia diceva che il nostro è un Paese senza memoria e senza verità. Ecco, per ripartire e per ricostruire occorre invece recuperare queste due mancanze e renderle attive nel lavoro che non solo il governo ma l’intero sistema Italia si accingono a compiere in questa fase. Da questo punto di vista il simbolo del ponte “Morandi” ormai quasi rinato, se lo guardiamo con gli occhi della memoria e della verità e senza i paraocchi della retorica celebrativa, può valere come un’indicazione utile su ciò che rischiamo di aspettarci nei mesi a venire. In cui bisogna rimettere in piedi una nazione.

La festa per il ponte di Genova è ovvia e sacrosanta, è un pezzo di Italia che si ricrea ed evviva. Ma sarebbe un errore gloriarcene. Trattare come eccezionalità quella che in Paese normale dovrebbe essere la normalità della ricostruzione di un viadotto, sia pure importantissimo e al centro di una indimenticabile tragedia, può nuocere.
Può diventare una cortina fumogena che fa dimenticare il nocciolo della questione, che poi è quello più utile per evitare di ripetere certi errori. Non è andato tutto bene nella fase precedente alla ricostruzione del celebre viadotto, perché si sono condensate lassù, o meglio laggiù tra le macerie, tutte le debolezze italiane. Poteva essere rifatto in 5 mesi il ponte, c’è voluto molto di più - non certo per colpa di chi lo ha realizzato - e non siamo ancora alla fine. 
E’ crollato il 14 agosto del 2018 e i lavori di ricostruzione sono cominciati dopo 244 giorni, il 15 aprile del 2019. E nel frattempo ma anche dopo, l’ex Morandi come specchio d’Italia ha dovuto sopportare ogni tipo di furore ideologico grillino. E’ stato sottoposto ai pregiudizi anti-capitalistici per cui la colpa di tutto veniva fatta risalire alle privatizzazioni autostradali. Ha dovuto sopportare le insensatezze di ministri incapaci (do you remember Toninelli?). Ogni polemica - revoca delle concessioni e altre grida - è servita da volano della decrescita infelice e occhio: questa tentazione esiste ancora e assai, nel sottobosco ideologico della cultura anche di governo, ovvero usare la pandemia per vagheggiare un «altro modello di sviluppo» possibilmente non sviluppista. 

E che dire del giustizialismo a furor di popolo, al di là delle legittime rivendicazioni dei familiari delle vittime, che si è scatenato contro i presunti colpevoli del disastro dell’agosto 2018? Nel dopo crollo è emersa la bramosia di paralisi di alcuni settori della politica e purtroppo anche della mentalità italiana. S’è affacciata prepotentemente una concezione della giustizia come vendetta popolare; come furia della gente, ben sollecitata dall’alto, a cui dare subito lo scalpo del colpevole in nome del populismo giudiziario e non della serenità liberale di giudizio. E ancora: gli iniziali conflitti di competenza su chi doveva soprintendere all’opera di ricostruzione e le baruffe giudiziarie non hanno aiutato la velocità del ricominciamento. 

Insomma, alcuni vizi politici e difetti culturali che hanno punteggiato la rinascita del ponte non devono riguardare la rinascita dell’Italia a cui ci stiamo con molte attenzioni - e la prima è quella dell’obbligo della tutela della salute di tutti - accingendo. Il campo di lavoro stavolta dev’essere sgombro da qualsiasi fattore che possa inibire il processo virtuoso che serve. Memori della vicenda ponte, servirebbe applicare un approccio nuovo all’Italia da fase 2. Nel quale non ci sia posto per gli ideologismi di ogni natura, compreso quello del fretta degli imprenditori di un certo Nord che a dispetto dei rischi mordono il freno sulle riaperture. O di certi sindacati che, invece di farsi carico degli interessi generali dei cittadini che hanno bisogno di tornare al lavoro, usano la tragedia in corso per cavalcare aiuti assistenziali. L’Italia del “particulare”, in cui ogni categoria e corporazione si muove avanzando diritti e non doveri o nella quale i governatori del Nord guardano all’ombelico dell’interesse territoriale senza considerare che il Paese esiste solo in quanto unitario (come un corpo unico è la salute del Paese), è quella vecchia Italia rissosa e perdente che può andare bene nella fase zero ma non sembra attrezzata per la fase 2. Vedere di nuovo all’opera questo sistema di freni e di impacci, questa farraginosità nei rapporti interni e nelle procedure burocratiche, questa lentocrazia che non serve a nessuno, non è un’immagine di futuro ma di un conservatorismo a dispetto di tutti e di tutto. 

E allora con memoria e con verità non solo il governo, ma l’intera rete istituzionale anche locale senza protagonismi e senza furberie, hanno il dovere civico di emanciparsi dalle zavorre. Per delineare tutti insieme un disegno nitido al servizio della patria. Fatto di azioni condivise, in cui lo Stato centrale ha la preminenza assoluta, di tempi certi per la ricostruzione e di sguardo sicuro sulla meta da raggiungere. I vizi, ma poi anche le virtù, del rifacimento del ponte di Genova, valgono come background. E serve anche non nascondersi dietro la retorica del ponte rifatto, per dire quanto siamo bravi. Perché la sfida vera è ancora tutta ancora da giocare. 
© RIPRODUZIONE RISERVATA