Mario Ajello
Mario Ajello

Onori e oneri/Strada in salita per il vincitore

di Mario Ajello
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Martedì 28 Maggio 2019, 00:04
«I problemi della vittoria - così diceva Winston Churchill - sono più piacevoli ma non meno impegnativi di quelli della sconfitta». Probabilmente Matteo Salvini sperimenterà di persona questa verità, espressa da uno che s’intendeva di politica. Il leader vittorioso si trova davanti a una serie di difficoltà, derivanti dalla debolezza dello sconfitto Di Maio. Il quale si ritrova con i voti dimezzati.

Ma anche con una leadership che rischia l’evanescenza e una ex minoranza interna che forse si è fatta maggioranza e farà di tutto anche usando la sponda del Pd per tirare il leader sconfitto, e sostituibile, fuori dallo schema giallo-verde. Condizioni che rendono poco praticabile una navigazione la cui bussola sarà inevitabilmente quella del programma e dell’agenda leghista. E Di Maio - ecco Fabrizio De André citato da Salvini in chiave politicissima - «non deve andare in direzione ostinata e contraria». Sennò, finisce tutto. 
Può accadere alla prima occasione che l’estrema fragilità del quadro, in cui uno ha vinto troppo e l’altro ha perso troppo, finisca per esplodere. Le micce che a breve si possono accendere non mancano: dal caso Rixi, sulle cui dimissioni Salvini sta avvertendo il partner che non cederà, alla Tav. Per non dire dell’autonomia che Di Maio, ormai rifugiato nella ridotta meridionale, non potrà assecondare. 

Tutto ciò significa che il governo è destinato ad avere la vita corta? Questo il rischio concreto che si para avanti al vincitore, e che Salvini dovrà fare di tutto per allontanare. Ma l’equilibrismo su un filo troppo sottile richiede doti magiche. La complicazione, per il leader leghista, sta nel fatto che senza far cadere il governo deve consegnare in tempi rapidi agli elettori (ormai sempre più volatili, volubili e impazienti) la riforma fiscale, l’autonomia, la Torino-Lione appena plebiscitata nel voto piemontese e gli altri punti su cui il Carroccio ha avuto il consenso popolare. Un’operazione, questa dell’andare avanti ma detto legge io e ti scarnifico come e più di prima, a dir poco delicata e che dovrà passare tra l’altro dalla metamorfosi del premier. Conte nella fase del grillismo trionfante era espressione di Di Maio e ora dovrà inevitabilmente farsi da concavo a convesso e leghistizzarsi. Una capriola a volteggio troppo alto. 

Ad aggravare la condizione di Salvini c’è poi il paradosso che, pur volendo insistere con l’attuale maggioranza, ha già una maggioranza alternativa numericamente pronta, il nuovo-vecchio centrodestra, e le sirene che lo chiamano da quella parte dove per ora non vuole andare sono tante, interne ed esterne al suo partito, e particolarmente agguerrite e dotate di ragioni forti. Insomma un vincitore così corrisponde esattamente alla teoria di Churchill, il quale come ogni bravo statista sapeva bene che un leader ha bisogno di sponde. Salvini sembra averne poche. Ha contro la Chiesa, ha un rapporto complicato con il Quirinale, per non dire dell’Europa dove i sovranisti non hanno vinto e la maggioranza parlamentare e di governo non cambierà. Nei confronti di Bruxelles il capo leghista farà il Varoufakis, come parrebbe in queste ore di euforia post-voto, oppure farà ricorso alle arti delle mediazione, mentre i suoi consiglieri economici alla Borghi e Bagnai non fanno che spingerlo per la rottura? Anche dalla scelta di chi mandare come commissario Ue, cioè dal profilo del personaggio prescelto (uno dei suoi, magari no euro, o una figura meno militarizzata?), si vedrà quale format Salvini vorrà scegliere: quello della sfida e dell’arroccamento sovranista o quello dell’apertura e della negoziazione patriottica anche dura ma virtuosa, per cui si possono sforare i parametri in nome della giusta causa della crescita e del debito per lo sviluppo. 

La strada in salita del vincitore s’inerpica in Europa e passa allo stesso tempo dalla Capitale d’Italia. Ha lanciato un’opa su Roma il vicepremier ma per risultare credibile la sua operazione deve essere sgombra da quelle ipoteche anti-romane che lo hanno portato a dire che Alessandria e Catania valgono quanto l’Urbe. «O aiutiamo tutti o nessuno», è stato finora il suo slogan a proposito del Salva-Roma che ha affossato. Si tratta di un atteggiamento, anti-storico, che dovrà necessariamente cambiare e che oltretutto non trova minimamente ascolto - e lo stesso vale per l’autonomia - nei suoi partner di Fratelli d’Italia e di Forza Italia. E non può sfuggire a Salvini quanto la Meloni rappresenti un punto di equilibrio nel centrodestra, capace di dargli una vocazione nazionale, che è ben più preziosa di qualsiasi pulsione autonomista o da revival padanista. 

Non basta aver vinto la battaglia contro il politicamente corretto. Adesso Salvini - che purtroppo non ha letto il Vincenzo Cuoco del “Saggio sulla rivoluzione napoletana” del 1799: «Le vittorie consumano le forze al pari, o poco meno, delle sconfitte, e si perdono inutilmente se prive di consiglio» - deve dimostrare di essere un uomo di governo. Anche se non sarà affatto facile per lui superare problemi insormontabili.

 
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