​Maria Latella

La famiglia/ Il dolore di un padre: lui si fidava troppo

di ​Maria Latella
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Giovedì 31 Ottobre 2019, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 07:51
Guardare il padre di Luca, costretto a parlare dietro il tavolo di un albergo, da solo.
Sentirlo affermare «Mia moglie non ce l’ha fatta», con gli avvocati accanto a sostenerlo in una conferenza stampa convocata per dire «Questo era mio figlio». Guardarlo e pensare due cose.

La prima: quanto amore può avere un padre per trascinarsi davanti a gente che non conosce, davanti ai cronisti che hanno scritto di suo figlio Luca cose che devono avergli lacerato il cuore e magari poi si accerterà che in parte sono vere, chissà, ma non possono essere vere per lui, ora. Quanto amore c’è in un padre che vuole solo spiegare chi era, chi è stato, almeno per la sua famiglia, Luca Sacchi, ucciso davanti a un bar con un colpo di pistola. 
Guardare quel padre che parla a fatica, e pensare subito dopo che cosa avrebbe provato, Luca, suo figlio, se solo avesse potuto immaginare in quale vortice di dolore è stato scaraventato quell’uomo di mezz’età che fino a otto giorni fa aveva una vita di emozioni e preoccupazioni normali. Il lavoro, la famiglia, tenere d’occhio il figlio minore perché Roma è lastricata di trappole, e Luca, il figlio grande, aveva il compito di passare dal pub e controllare a distanza il più piccolo.

Se i figli sapessero. Se i figli potessero prevedere la proporzione del dolore, a quale devastazione del cuore può portare l’effetto di una loro decisione sbagliata, pericolosa, fatta con la leggerezza di chi pensa di giocare a un videogame. 

Noi non sappiamo ancora perché Luca è stato ucciso, non sappiamo perché la sua fidanzata avesse tanto denaro nello zainetto, quali erano i rapporti con i due ventenni arrestati. Ma suo padre ieri ha detto: «Luca si fidava troppo». E chissà quante volte glielo avrà ripetuto, col figlio che replicava “Ma no, papà, di che ti preoccupi”.
Tutte le volte che un giovane muore nel modo assurdo e feroce toccato a Luca Sacchi, tutti impariamo qualcosa. Scopriamo la ferocia delle nostre città, per alcuni fino a un minuto prima invisibile agli occhi. Scopriamo la voglia di fare soldi a tutti i costi che sta avvelenando perfino i ragazzini. Scopriamo che l’ imitazione del criminale eletto a nuovo Role model può spingersi non solo al ridicolo impadronirsi del lessico, ma fino alle conseguenze più estreme.

Da questa storia, paradossalmente, stiamo però imparando qualcosa di nuovo. Non sui figli. Sui genitori. La madre di uno degli arrestati, Giovanna Proietti, e Alfonso Sacchi, il padre della vittima, non erano, non sono, genitori assenti, lontani. Sono genitori che sui figli hanno puntato la vita. «Con Luca ci dicevamo “Ti voglio bene”» ha ricordato ieri Alfonso Sacchi. Un padre che abbracciava suo figlio, parlava con lui, lo aveva nei suoi pensieri. Giovanna Proietti e Alfonso Sacchi non sono stati genitori indifferenti. C’erano, per i figli. Ci sono stati sempre. Ma non hanno potuto proteggerli a mani nude.

Il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, proprio sul Messaggero, ha mostrato di capire il tormento di tante madri e di tanti padri. La loro solitudine. Un proverbio africano dice che ci vuole un villaggio per crescere un bambino. Serve anche dopo, quando il bambino diventa giovane adulto. Serve un villaggio e lo Stato.
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