Perché, invece, a prenderlo sul serio, ci sarebbe materia per una protesta formale sul piano diplomatico. Non solo Vienna dubita della legittimità del nostro governo, che prenderebbe in ostaggio i cittadini, in più pensa sia composto da briganti, usi alla pratica del sequestro di persona. Certo il peggiore dei tanti interventi a gamba tesa, cominciati da quando il governo Conte si è formato, per la gravità delle parole ma anche perché proveniente non da un membro della Commissione Ue ma dal governo di un Paese che, tra l’altro, ha aperto a freddo un contenzioso con noi sulla doppia cittadinanza agli altoatesini. Ora abbiamo una domanda per Loeger, i ministri olandesi, il presidente della Bundesbank, Weidmann (secondo il quale, bontà sua, le nostre spese sono «legittime» purché «non aumentino il debito»).
La domanda è la seguente: un governo nazionale è legittimato, appunto, dal voto e dalla fiducia ricevuta in Parlamento, a condurre la politica che ha deciso oppure non lo è? Dovessero rispondere sì, allora dovrebbero immediatamente scusarsi. Se invece, per onestà intellettuale, rispondessero di no, dovrebbero ammettere che ci troviamo in un scenario difficilmente definibile democrazia, almeno come intesa in Occidente dalla Rivoluzione americana del 1776 in poi.
Per quanto ci riguarda crediamo invece che un governo nazionale (e sovrano, come scritto in Costituzione) abbia non solo il diritto ma persino il dovere di impostare la politica economica per la quale è stato legittimato dagli elettori. Dobbiamo però aggiungere che gli attacchi di governi, virtuosi solo perché a guida di piccoli Stati, come Olanda e Austria, agganciati all’area tedesca (non a caso i francesi stanno zitti), li avremmo meglio rintuzzati se la proposta del governo fosse stata diversa.
Probabilmente prediche e minacce sarebbero giunte comunque, perché in larga parte strumentali, ma una manovra che avesse puntato più sul taglio delle tasse e su corposi investimenti, invece che su misure di spesa che rischiano di essere puramente assistenziali, avrebbe consentito di far fronte con maggiore vigore alle critiche, e avrebbe meglio garantito una crescita del Pil, soprattutto in un momento in cui si annuncia, se non una recessione globale, un rallentamento della economia mondiale. L’eresia rispetto alla religione dei parametri non è affatto un peccato, purché accompagnata da obiettivi espansivi per il Paese.
La disfida con la Commissione Ue e con numerosi governi dell’area, su queste basi, sta avendo un altro effetto negativo. Ci ha impedito finora di prendere parte da protagonisti al processo della Brexit. L’Italia ha avuto sempre un ruolo di alleato preferenziale di Londra e di ascoltatore sensibile dei suoi malesseri. Per questo i governi passati dovevano sforzarsi di più per far capire alla Ue che il Regno Unito avrebbe potuto prendere la strada che poi ha intrapreso. Dopo il referendum del 2016, poi, sono stati essenzialmente Francia e Germania a gestire il dossier Brexit: proponendo alla fine un contratto per Londra, che rischia di essere rigettato da Westminster, portandosi via il governo May e qualsiasi altro accordo.
In questa fase, se il governo italiano non avesse dovuto chiudersi, per evitare di muoversi su troppi fronti, avrebbe potuto fornire un contributo ragionevole, e più di cerniera tra le ragioni del Regno Unito e quelle della Ue. Non resta che un quadro di macerie, dal Tamigi al Tevere: ma chi voglia incolpare del cedimento i soli “populisti” sarà presto destinato a subire dolorose delusioni.
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