Marco Gervasoni

Esempio per l'Europa/ Sui migranti una lezione da Israele

Esempio per l'Europa/ Sui migranti una lezione da Israele
di Marco Gervasoni
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Martedì 20 Novembre 2018, 10:59 - Ultimo aggiornamento: 21 Novembre, 12:32
In tutta la sua storia, Israele si è sempre prodigato per difendere gli ebrei presenti negli altri Stati. Potremmo anzi dire che questa sia una missione costitutiva del suo essere. Eppure ieri nella capitale di Etiopia, Addis Abeba, una manifestazione di ebrei di quel Paese, chiamati Falascia, ha protestato contro Tel Aviv, dopo la decisione del governo di Netanyahu di accoglierne solo mille, sugli 8 mila che ancora vi vivono.

Tra l'altro modificando in tal modo una decisione già presa nel 2015. Una democrazia come Israele (anzi, la sola democrazia del Medio oriente), una comunità multietnica e multireligiosa, è giunta alla decisione drastica di limitare l'ingresso, anche a coloro che condividono la religione del Libro, per ragioni di sicurezza ma soprattutto di esistenza. Con un'estensione di soli 22 mila chilometri quadrati (l'Italia ne ha trecentomila) lo stato di Israele non può permettersi accoglimenti indiscriminati, tanto da dover imporre le quote più rigide.

Ma non è solo una questione di estensione geografica: l'immigrazione di elementi che condividono con gli Israeliani solo la religione ma non la cultura e i costumi rischia di stravolgere una società come quella, già duramente provata dalle tensioni del conflitto palestinese. Qualcuno dirà che il premier israeliano è un «razzista», un «fascista» , un «nazista» - per quanto possa essere incredibile, c'è chi lo scrive senza arrossire di vergogna. Niente di tutto questo, Netanyahu è un leader democratico che, con realismo, ha deciso di difendere non solo il benessere, l'esistenza stessa del suo popolo. Ma la vicenda degli ebrei etiopi ci rimanda anche un'altra lezione, questa volta tutta europea e tutta italiana.

Se persino Israele ha deciso, in buona sostanza, di chiudere le sue frontiere, per ragioni di sicurezza e per non disintegrare il proprio tessuto sociale, perché l'Europa le dovrebbe tenere aperte? Perché, presi da vicende, per carità, di grande importanza, la Commissione e gli stati dell'Europa sembrano in questi mesi essersi dimenticati dell'immigrazione? L'ondata è finita? Niente di meno vero. Gli osservatori fanno rilevare grandi spostamenti di masse umane verso la Libia, la pista balcanica si è riaperta, la situazione in Grecia sta implodendo: e immaginiamo se dovessero saltare i fragili regimi tunisino e algerino. E se nel nostro paese gli sbarchi sono diminuiti, è solo grazie alla politica rigorosa del nuovo governo, che ha lanciato un segnale, e ha fatto in parte deviare le rotte verso altri paesi, soprattutto la Spagna.

Solo che ora il governo Sanchez, che ha preso la decisione politica di aprire per accreditarsi agli occhi dei partner europei, si trova a gestire un aumento consistente dei flussi dell'immigrazione, che peraltro una volta arrivati in Spagna si dirigono verso la Francia di Macron. Non solo la Commissione Ue si sta disinteressando ai migranti: sta diventando sempre più chiaro che la politica arcigna di Bruxelles sulla nostra manovra (certo non esente da difetti) è anche una risposta al rifiuto del governo Conte, e di Matteo Salvini, di trasformare il nostro mezzogiorno in un gigantesco campo immigrati.

Nonostante il rancore che attraversa la società francese, e che deve molto, anche se non tutto, all'immigrazione clandestina. Nonostante la discutibile decisione di Merkel del 2015 (« ce la possiamo fare») che ha messo in crisi non solo lei, ma tutta la Cdu e il sistema della Bundesrepublik. Nonostante la Brexit, prodottasi anche in ragione della crisi migratoria. Nonostante tutto questo, ancora pochi hanno capito che l'immigrazione incontrollata distrugge il tessuto sociale di un paese. L'ha capito Netanyahu. L'ha capito Trump. L'ha capito Orban, L'ha capito Salvini. Speriamo che quando lo comprenderanno anche tutti gli altri, non sia ormai troppo tardi.
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