​Giulio Sapelli

La tregua fragile/ La miccia del greggio riaccende il Medioriente

di ​Giulio Sapelli
4 Minuti di Lettura
Martedì 17 Settembre 2019, 00:15 - Ultimo aggiornamento: 10:42
Il mondo del petrolio è di nuovo in subbuglio. Non solo perché il nuovo choc rischia di avere pesanti ricadute sui mercati, ma anche perché rischia di incidere in profondità su alcuni delicati equilibri sui quali fino ad oggi si è retta una parte del Medio Oriente.

Gli impianti della compagnia petrolifera “Saudi Aramco” sono stati colpiti da droni aerei, e la responsabilità degli attentati è stata rivendicata dai ribelli filo-iraniani Houthi, che appartengono alla variante sciita dell’Islam zaidita, assai vicina agli Imamiti che sono in maggioranza in Iraq, Libano e Iran e sono noti per avere posizioni giuridiche e liturgiche assai prossime a quelle della maggioranza sunnita del mondo musulmano. 

Ma, al contrario dei sunniti, essi credono nella necessità di un Imamato, che sarà legittimato solo da chi sappia guidare i fedeli per l’affermazione del proprio credo. Dal 2015 combattono in Yemen contro una coalizione politico-militare a guida saudita e la loro unicità religiosa li rende prossimi alla ierocrazia iraniana che è oggi al potere, la quale li considera sì fratelli separati, ma pur sempre fratelli che combattono la stessa battaglia contro una monarchia ritenuta blasfema come quella saudita.

Blasfema perché ha permesso che sul suolo sacro - dove è ospitata la Mecca - si installassero i militari americani e che ha recentemente abbandonato, di fatto, la rivendicazione storica di eliminare lo Stato di Israele.
Ben si comprende come l’attacco che ha distrutto uno degli impianti petroliferi tra i più complessi su scala planetaria (si tratta del maggiore impianto di stabilizzazione al mondo in cui vengono pretrattati i due terzi del greggio saudita da destinare all’esportazione), oltre ad avere avuto immediate ripercussioni sul mercato petrolifero mondiale, ha scosso i già difficili rapporti tra la potenza egemone in quell’aerea centrale per le riserve strategiche. 
Il prezzo del petrolio, infatti, è oggi influenzato dagli eventi geopolitici più che da dinamiche di offerta e di domanda, essendo ormai un mercato virtuale fondato su gambling, su scommesse borsistiche “allo scoperto” e fortemente determinato dai conflitti di potenza in quel plesso geografico e statuale: il Golfo e i suoi Stati plutocratici fondati sui petrodollari.

Gli Stati Uniti sanno benissimo che la loro tanto strombazzata autosufficienza energetica da shale gas e tight oil non durerà che una decina d’anni e che sempre si dovrà ritornare alle sabbie del deserto su cui si è scritta la storia del Medio Oriente e della Mesopotamia, come si è ben dimostrato terribilmente dal 2001 in avanti quando tutti siamo stati costretti, dalla tragedia delle Torri Gemelle, ad accorgerci che le vie del petrolio sono le vie della crescita economica e sociale del mondo.

L’attacco ha costretto Riad a fermare circa metà della sua produzione giornaliera: 5 milioni di barili su un output totale di 9,8 milioni. E tutto ciò mentre la “Saudi Aramco” da mesi andava preparando la quotazione in Borsa con una colossale operazione che a questo punto potrebbe incontrare non modesti ostacoli e passibile perciò di un rinvio. 

Ha perciò sorpreso che il principe Mohamed Bin Salman, nuovo reggente di fatto della monarchia saudita, abbia d’un colpo destituito il più sperimentato dirigente che la compagnia abbia mai avuto, ossia Khalid al-Falih, già ministro dell’Energia e amministratore delegato della grande impresa, nominando come presidente e amministratore delegato Yasir al-Rumayyan, già presidente del fondo sovrano saudita, e come secondo amministratore delegato e nuovo ministro dell’Energia il principe Abdulaziz bin Salman, che è suo fratello. Entrambi personaggi di spicco nella cuspide del potere ma senza esperienze dirette in campo petrolifero.

L’attentato che ha colpito il giacimento Hijra Khurais – il secondo per dimensioni nel Paese, con una capacità produttiva di 1,45 milioni di barili al giorno - e l’impianto di Abqaiq, ha un significato politico preciso: mira a indebolire l’ autorità della monarchia saudita e del suo principale alleato: gli Stati Uniti.

Che, come ha dimostrato la defenestrazione di John Bolton e l’ascesa a capo indiscusso della politica estera nord americana di Mike Pompeo, parevano avviarsi verso una politica di negoziazione decelerata con l’Iran, per la ripresa di una sorta di “entente” che non sarà certo subito cordiale, ma sicuramente non potrà non sfociare in un nuovo tentativo di “regolazione” della questione nucleare iraniana, con la Russia da un lato (già fortissima in Siria) e la Turchia dall’altro, rassicurata che sarà sulla questione curda. 

Uso il termine regolazione perché è quello più neutro possibile per evocare la questione centrale che sovradetermina oggi il destino del Medio Oriente e, nel Medio Oriente, di Israele, che è l’altro attore in gioco in questa spietata partita senza esclusione di colpi. 

L’incognita è dunque l’Iran. Fino a quando si dovrà legittimamente pensare che il suo revisionismo è minaccioso e letale per Israele in primis e per quell’assenza di conflitti che auspichiamo (non è esatto parlare di pace, perché la pace è altra cosa dalla tregua)? E quando si potrà iniziare a sperare che si possa invece raggiungere una tregua? La Francia ci lavora e ci crede. Ecco la posta in gioco, che non deve essere oscurata dai fumi dei campi petroliferi che bruciano nel deserto.
© RIPRODUZIONE RISERVATA