Giulio Sapelli

Sfida globale/ Quel testo ancora ignoto alimenta sospetti degli alleati

di Giulio Sapelli
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Martedì 12 Marzo 2019, 00:00
La Nuova Via della Seta: che cosa nasconde l’acronimo Bri, ovvero Belt and road initiative? Una recente dichiarazione del ministro degli Esteri cinese Wang Yi è particolarmente significativa a questo riguardo. Leggiamo: «Storicamente l’Italia è stata una fermata dell’antica Via della Seta. Diamo il benvenuto all’Italia e ad altri Paesi europei che prendono parte attiva alla Bri. L’Italia - continua il ministro cinese - è un Paese indipendente e noi confidiamo che decida di aderirvi in virtù della sua indipendenza».

Così dicendo, il ministro rispondeva a una domanda sulle «pressioni esterne che vengono dagli Usa sull’eventuale adesione di Roma alla Nuova Via della Seta». Se si vuole avere contezza di quel che a mio avviso è una visione imperiale del mondo bisogna leggere con attenzione questa dichiarazione. Dall’Italia non è venuta alcuna risposta. Passività tanto più curiosa se si mette in relazione quella dichiarazione con le parole che la commissaria Ue per il Commercio, Cecilia Malmstrom, ha pronunciato all’Università di Georgetown. «La risposta da dare alla Cina - ha detto - è stata la nostra principale preoccupazione degli ultimi dieci anni. La competizione è necessaria, purché sia fair e si sviluppi entro le regole. La Cina invece sta approfittando della nostra disattenzione in merito a queste regole».

In questo contesto stanno giungendo alla fine dei preparativi per la visita che il presidente Xi Jingping compirà prossimamente in Europa e in Italia, nel momento in cui l’Unione tra mille difficoltà sta cercando di porre in atto un nuovo meccanismo di controllo degli investimenti stranieri nel Vecchio Continente. Ed è significativo che ciò accada nel mentre sta montando la polemica franco-tedesca contro le norme antitrust europee vigenti, di cui si chiede un radicale rinnovamento con maggiore attenzione ai temi dell’occupazione e della sostenibilità sociale. È significativo che le nuove norme su cui l’eurocrazia sta lavorando a Bruxelles siano scritte in francese e in tedesco e che contro di esse si stia sempre più sviluppando, sebbene debolmente, la resistenza di Italia e Portogallo. E qui ora vediamo che tutto si tiene.

Sia Italia che Portogallo hanno infatti annunciato l’intenzione di aderire alla Nuova Via della Seta (e si resta perplessi nel constatare che a ciò sono giunti senza che si conoscano i contenuti del documento d’impegno). In suo favore si sono sprecate le dichiarazioni del sottosegretario Michele Geraci dei 5Stelle, ed ha avuto grande risalto l’intervista che il primo ministro portoghese, Antonio Costa, ha rilasciato recentemente al Financial Times. In quell’intervista il grande poeta che guida coraggiosamente un governo di sinistra storica e non immaginaria, che ha saputo bene opporsi con flessibilità democratica e rigidità sostanziale all’austerity franco-tedesca, ha criticato fortemente quella riscrittura delle regole poiché esse potrebbero inaugurare quel protezionismo contro la Cina che sinora, a parer mio, non si è sciaguratamente mai eretto e che invece per l’illustre poeta sarebbe disastroso per tutti. In verità quello che preoccupa soprattutto la cuspide tecnocratica dell’eurozona, riflettendo una preoccupazione soprattutto tedesca, è il volume degli investimenti cinesi che si sono diretti nei Balcani sempre così febbricitanti, soprattutto nei Paesi candidati ad accedere al club europeo, che confinano con l’Italia.

Mi paiono perciò molto significative le recenti dichiarazioni del commissario europeo Joahannes Hahn, secondo il quale finora l’Unione ha sovrastimato l’influenza russa in quelle nazioni mentre ha sottovalutato quella cinese. «La Cina non si preoccupa - ha spiegato - se una nazione può far fronte o meno ai suoi crediti, perché laddove non riesca a farlo Pechino esercita pressioni di ogni tipo per appropriarsi delle opere che hanno generato quei debiti». D’altro canto, la Cina già possiede il porto del Pireo e una quota rilevante di quello di Trieste. Se si riflette sul fatto che il Portogallo ha ceduto ai cinesi il porto di Sintra, ben si comprende come le città anseatiche dei Paesi Bassi - il porto di Rotterdam in primis - vivano grandi preoccupazioni per l’attivismo cinese e rafforzino la loro alleanza con la Germania che non a caso ha continuato a tenersi ben stretta la Spagna, rimasta sorda alle sirene di Pechino.

Perciò sorprende la decisione italiana di tentare di risolvere i propri problemi economici (almeno in parte) con un’alleanza con la Cina, proprio mentre essa ha aperto un fronte insidioso per l’ordine geo-politico mondiale con gli Stati Uniti e l’Europa. Giancarlo Giorgetti è da poco tornato da Washington e, oltre alla stima e all’amicizia nord-americana di tutte le parti politiche e del presidente verso la nazione italiana, deve aver portato con sé la preoccupazione che questo patrimonio venga intaccato. C’è di più. Tutti i giornali nord americani, primo fra tutti il New York Times, organo di stampa tra i più duri nelle critiche a Donald Trump, polemizzano contro la scelta italiana con una certa veemenza. Del resto, basterà pensare al fatto che lo stesso Barack Obama nel suo TrasPacific Act che doveva aprire un’area immensa di libero mercato con costi di transazione delle merci tendenti allo zero, aveva in esso voluto comprendere il nemico storico della Cina, il Vietnam, e non la Cina stessa, provocando i primi seri contrasti tra i due paesi.

Naturalmente, altro sarebbe stato se l’Europa, unita e non divisa come si presenta in questi mesi a causa di egoismi nefasti, si fosse mossa in direzione di una collaborazione del tutto legittima con la Cina, mettendo sul piatto la sua compattezza anche in funzione dei necessari contrappesi geopolitici. Ma poiché così non è, a me pare in definitiva che l’alzata di scudi nord-americana proveniente da ogni parte politica e i molti richiami all’equilibrio di stampo europeo, debbano indurre il governo italiano a riflettere su una corsa che potrebbe precipitare il nostro Paese in un doppio isolamento: dall’Europa e dagli Stati Uniti. Non possiamo permettercelo.
 
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