Francesco Grillo
​Francesco Grillo

Il caso Istruzione/ Il Paese che scommette sul passato

di ​Francesco Grillo
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Venerdì 27 Dicembre 2019, 00:10
Investiamo in educazione - dagli asili alle università - 4,3 volte di meno di quello che spendiamo in pensioni. Investiamo meno di chiunque altro nella preparazione di chi nel mondo del lavoro sta per entrare (secondo Eurostat, il 3,8% della nostra ricchezza nazionale e solo la Romania ci sta dietro, tra i 28 Paesi dell’Unione) e più di tutti nella protezione di chi da quel mondo è uscito (secondo l’Oecd, al 16,2% siamo preceduti solo dalla Grecia). È questo il numero che più di ogni altro fotografa il suicidio perfetto. Di un Paese che sembra aver, da tempo, rinunciato ad avere un futuro. 

È, dunque, utile l’atto di denuncia, pagato con le dimissioni, del Ministro dell’Istruzione. Lorenzo Fioramonti spesso si è distinto per opinioni controverse, ma stavolta ha acceso un faro su un nodo strutturale. Che nessun governo, in venticinque anni di revisioni più o meno intelligenti della spesa pubblica, è riuscito a sciogliere. E che sta strozzando l’Italia.

Certo non basta spendere di più in educazione per ottenere risultati migliori. Come nota l’Economist nel commentare gli ultimi risultati del Pisa - il test somministrato dai ricercatori dell’Oecd di Parigi a seicentomila quindicenni di 72 Paesi - la correlazione tra spesa per studente e competenze si sta indebolendo. Conta molto, anche l’organizzazione e la formazione degli insegnanti che l’Estonia e la Finlandia sperimentano e che è resa urgente dalla mutazione tecnologica che stiamo vivendo; la valutazione, la meritocrazia feroce e gli incentivi giusti che ha portato la Cina al primo posto di tutte le classifiche. E tuttavia, sembra evidente che l’Italia sta sotto la soglia minima per poter rispondere alla sfida e ciò avviene mentre tutti, nel mondo, si rendono conto che è proprio a Scuola che, nel ventunesimo secolo, si determina la “ricchezza delle nazioni”. E la possibilità di una società di riconoscersi come tale. 

Non è, del resto, vero che la Scuola e l’Università non contino dal punto di vista politico. Gli insegnanti sono novecentomila e questo fa della Scuola pubblica italiana il più grande datore di lavoro in Europa. Gli alunni sono quasi nove milioni. Ai quali si aggiungono un milione e mezzo di studenti e professori universitari. Dieci milioni di ragazzi, il cui futuro non può non interessare quindici milioni di genitori che si stanno, progressivamente, convincendo che un qualsiasi tentativo di far ripartire una società bloccata, non può che cominciare tra le generazioni più giovani. 

La Scuola e l’Università contano, come del resto sapeva bene la Democrazia Cristiana che, in decenni di potere in coalizione, mai abbandonò il dicastero di Trastevere fino alla propria stessa liquidazione. E peserebbero ancora di più, oggi, in un progetto politico per il Paese che proprio cominciando da un forte investimento nella Scuola, troverebbe la propria credibilità e forza. 

Scuola dell’obbligo fino a 18 anni; estensione del tempo pieno su tutto il territorio nazionale; un semestre di studi all’estero accessibile a tutti: potrebbero questi i termini di un investimento ambizioso che un taglio della spesa non produttiva può rendere sostenibile. E, invece, abbiamo finora fatto l’esatto contrario e ciò sembra dire che la politica ha perso nei tagli lineari, persino, il proprio obiettivo primario che era, una volta, quello di conquistare e conservare consenso. 

Oggi investiamo in educazione quattro volte meno di quello spendiamo in pensioni: la notizia ulteriore è, però, che nel 1992, poco prima, della prima grande riforma della Scuola (e delle Pensioni), quel rapporto era migliore (inferiore a 3); e che esso – a leggere la nota al Def - peggiorerà ulteriormente (arrivando a 6) fino al 2040, con un’ulteriore riduzione di quella per la Scuola e un aumento della spesa previdenziale. 

Ci siamo, da soli, intrappolati in un sentiero che ci sta svuotando: dovrebbe essere questo numero a dover occupare il centro del dibattito sulla Finanziaria. Accanto a quello sul Deficit o sul Debito pubblico sul Prodotto Interno Lordo. Dovremmo occuparci di come distribuiamo risorse scarse tra passato e futuro, e di efficienza della spesa pubblica, perché è solo così che usciamo da una crisi senza fine. Non è con i tre miliardi di Fioramonti che si vince la sfida, ma di certo è urgentissimo cambiare radicalmente le priorità di un sistema arrivato al capolinea. 

«Siamo quello che conosciamo»: è la risposta che si sente, spesso, dai capi di Governo dei Paesi, delle Imprese di maggiore successo nel mondo. È la conoscenza, la capacità della conoscenza di risolvere i problemi e di tenerci insieme come comunità, che può farci sopravvivere alla grande trasformazione che definirà il ventunesimo secolo. E da qui che deve cominciare l’unico possibile “manifesto per l’Italia”, se c’è ancora qualcuno che ha l’energia di proporlo.
 
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