Giuseppe Vegas
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La mossa del premier/I titoli di Stato volano solo se l’economia è in crescita

di Giuseppe Vegas
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Sabato 18 Febbraio 2023, 00:07

A Bruxelles è iniziato il dibattito su come sarà ridisegnato il Patto di stabilità, quello dei due discutibili numeretti che non si sarebbero mai dovuti superare, relativi al rapporto con il Pil del deficit (3 per cento) e del debito (60 per cento). 


Qualche Paese cosiddetto frugale ha già iniziato a levare gli scudi, ma in realtà tutti sono convinti che quel sistema non ha funzionato e che occorre abbandonare il metodo di valutazione anno per anno, per adottarne uno nuovo, che consenta una visione pluriennale dell’andamento dei conti pubblici dei singoli Paesi aderenti all’Unione.


Questo approccio comporta una novità sostanziale. Poiché l’unico parametro che si presta a fornire un metro di giudizio inequivocabile è il livello del debito (sempre rispetto al Pil), per l’Italia non è detto che il nuovo Patto rappresenti una svolta salvifica. Negli anni siamo riusciti molte volte a rispettare il limite del 3% relativo al deficit, ma il debito ha veleggiato costantemente a un livello almeno doppio rispetto all’obiettivo, e oggi viaggia intorno al 145 per cento.
Logico dunque che il ministro Giancarlo Giorgetti prima e il premier Giorgia Meloni poi, abbiano annunciato di voler intervenire con soluzioni capaci di rendere la gestione del debito più equilibrata, assicurando al contempo che i titoli di Stato siano meno sottoposti ai venti della speculazione internazionale e più attraenti per gli investitori domestici, con particolare riferimento ai piccoli risparmiatori, tradizionalmente i più fedeli. In sostanza, si lavora su proposte di titoli di Stato che, destando l’interesse dei risparmiatori italiani, garantiscano la più elevata stabilità del debito, in modo anche da costituire una qualche sorta di parafulmine rispetto ai potenziali interventi sanzionatori che potrebbero essere adottati nei nostri confronti allorquando entrerà in vigore il nuovo Patto europeo.


Fin qui, tutto bene. Tuttavia, quando si parla di debito pubblico, non si deve dimenticare che si tratta di titoli di credito comprati e venduti in un mercato che da tempo è internazionale. Ragione per cui è indispensabile muoversi con i piedi di piombo. Viviamo infatti in un sistema di economie aperte, dove il risparmiatore interno può scegliere se investire in prodotti nazionali o in prodotti esteri. E altrettanto possono fare gli investitori stranieri, per attrarre i quali occorre che il prodotto offerto sia conveniente e credibile. Ed è ovvio che, se l’investimento proposto non risulta allettante per i mercati esteri, difficilmente potrà godere dell’apprezzamento di quello domestico. In sostanza, per essere conveniente l’investimento dovrà contenere un livello di remunerazione - che si parli di interessi o di accrescimento del valore capitale - che soddisfi chi lo acquista e, contemporaneamente, lo rassicuri sulla solidità dell’emittente.


La prima condizione dipende dall’andamento del livello dei tassi nei mercati mondiali, mentre la seconda dalla relazione esistente tra il tasso di crescita dell’economia nazionale e il tasso di interesse che si deve pagare sui titoli emessi. Se la crescita è alta, come è l’obiettivo che il governo persegue, l’interesse potrà essere contenuto; se non lo è, occorrerà aumentare il livello dell’avanzo primario del bilancio pubblico ed offrire interessi più elevati. Solo così l’investimento potrà risultare conveniente.
Nel caso in cui, invece, queste condizioni non si realizzassero, verrebbe a mancare l’interesse ad acquistare i titoli di Stato. Sicuramente gli investitori esteri si tirerebbero indietro. E se il prodotto non è gradito dal mercato internazionale, difficilmente potrebbe esserlo da quello domestico.

Certo, si potrà pensare a forme di allettamento per i risparmiatori italiani, ma occorre procedere con estrema cautela.


Sia perché non sono ammesse forme distorsive della concorrenza, cioè condizioni preferenziali per gli investitori interni, sia perché sarebbe assai rischioso ingenerare nei risparmiatori il benché minimo timore che si possa, ancorché in un remoto futuro, fare ricorso a qualche forma di coercizione, che il solo parlarne finirebbe per provocare la loro fuga.


Certamente, come ci ha insegnato il recente passato, il rischio di uno shock finanziario è sempre latente. Tutti ricordiamo quanto accadde nell’autunno 2011 e nell’estate 2012, quando la sfiducia nei confronti dell’Italia, unita alla vendita massiccia dei nostri titoli di Stato da parte di alcuni fondi esteri speculativi, ci portò ad un passo dal baratro. Ma si trattava di un fenomeno dovuto non alle caratteristiche dei titoli, bensì ai problemi dell’emittente, ovvero lo Stato.


Non va poi trascurato il fatto che lo scarso gradimento verso investimenti dall’estero, potrebbe ingenerare sospetti di una realtà economica poco attrattiva. Facile la conclusione: se non vogliamo investimenti destinati al settore pubblico, perché mai ne dovrebbero arrivare per quello privato? Sarebbe una manifestazione in contrasto con tutti gli sforzi in corso per riqualificare e modernizzare il nostro sistema produttivo e per riconquistare posizioni nel commercio internazionale. 


Obiettivi questi irraggiungibili senza l’intervento di capitali internazionali. Basterebbe ricordare che senza l’aiuto delle banche inglesi non avremmo potuto costruire le nostre ferrovie agli albori del ‘900.


Naturalmente vanno considerate anche le decisioni della Bce, che per ragioni di politica monetaria ha già manifestato ufficialmente l’intenzione di ridurre progressivamente l’esposizione verso i debiti statali. Dunque, in una logica sostitutiva l’idea del premier e del ministro dell’Economia ha una sua evidente validità, visto che attualmente la Banca di Francoforte possiede il 28% circa del debito italiano. 
Anche perché se in occasione delle aste periodiche si verificasse un episodio in cui la domanda di titoli fosse inferiore all’offerta - finora non è mai accaduto - il valore di mercato dei nostri titoli di Stato accuserebbe forti riduzioni. Con la conseguenza che le banche italiane e le istituzioni finanziarie, che a loro volta detengono complessivamente il 38% del debito pubblico, sarebbero costrette a svalutare i loro asset, e quindi a ricapitalizzarsi o in alternativa a ridurre sensibilmente i prestiti a imprese e famiglie.


Vale infine ricordare che oggi il debito italiano detenuto dai non residenti equivale a poco più di un quarto del totale. Una proporzione ragionevole. Tanto più che la posizione netta verso l’estero, che illustra la differenza tra le attività e le passività finanziarie esterne e include anche il debito privato, presenta, secondo i dati Bankitalia di fine 2022, un surplus di 105,7 miliardi.


Il problema, in definitiva, più che quello delle caratteristiche di Bot, Btp e similari, è del volume complessivo del debito e della stabilità del sistema finanziario che lo genera. È li che si deve concentrare ogni sforzo. Se poi, come sembra di capire, l’obiettivo è anche di coinvolgere i piccoli risparmiatori in un rapporto più diretto con l’economia nazionale, ben vengano tutte le semplificazioni per un più facile e rapido accesso all’acquisto. Di sicuro ciò contribuirà ad elevare le competenze finanziarie degli italiani.

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