Paolo Pombeni
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Progetti stranieri/Il patrimonio di Telecom e gli interessi del Paese

di Paolo Pombeni
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Martedì 23 Novembre 2021, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 21:42

Non è una roba da “telefonini” e competizioni fra offerte ai consumatori. Nell’affare Tim-Kkr è in campo una delicata questione di controllo su una infrastruttura decisiva per l’interesse del Paese e per il suo futuro sviluppo: la rete di comunicazioni digitali, non a caso un tema che l’Europa ha messo bene in evidenza nel quadro del suo intervento di Recovery.


Tuttavia è indubbiamente anche una questione di competizione sui mercati e giustamente il governo ha sottolineato la positività dell’interesse di grandi gruppi internazionali ad investire in maniera importante in Italia. Dunque nessun “vade retro Satana”, sarebbe roba da quel sovranismo da fumetti di cui soffriamo anche troppo. 
Si tratta piuttosto di vedere bene come stanno le cose per tenere in equilibrio componenti diversi: l’esigenza di disporre di accesso al circuito dei grandi interventi finanziari internazionali, il mantenimento di un patrimonio di creatività industriale, la tutela dei nostri interessi strategici come Stato sovrano.


Innanzitutto ci permettiamo di ricordare che la chiamata in campo di “cavalieri bianchi”, nazionali o stranieri, non sempre ha portato fortuna alle società finite nel loro mirino. Nel caso specifico segnaliamo che l’inizio del declino di Tim-Telecom corrisponde al lancio della “madre di tutte le Opa avvenuto nel 1999 ad opera dei “capitani coraggiosi” (così battezzati dall’allora premier Massimo D’Alema che li benedisse senza riserve). Guidata da Roberto Colaninno ed Emilio Gnutti, sotto l’egida benevola di Mediobanca, l’Opa da 102 mila miliardi di vecchie lire (circa 50 miliardi di euro) fu realizzata pressoché interamente a debito: un debito monstre che attraverso alchimie finanziarie non proprio ortodosse verrà poi caricato quasi per intero sui conti di Telecom. Proprio quell’operazione segna l’inizio della tragica spoliazione di una delle società italiane fino ad allora considerate tra le più ricche e vitali in Europa.


Per non dire dell’esperienza Telco, la società che di nuovo sotto la regia di Mediobanca - già allora guidata da Alberto Nagel - nel 2007 rilevò da Pirelli il controllo di Telecom Italia. Riuniti in Telco azionisti del calibro di Telefonica, Benetton e Intesa Sanpaolo, Nagel impartì le direttive per un nuovo e orgoglioso rilancio del gruppo telefonico. Sette anni dopo, però, Telco fu costretta a dichiarare forfait: l’ambizioso progetto del banchiere milanese si era dissolto allargando ancor più la voragine nei conti Telecom. Sicché la cordata si sciolse tra accuse di gestione inadeguata, non senza iscrivere nei propri bilanci perdite per un totale non lontano da 5 miliardi. Da lì ebbe avvio la sfortunata campagna d’Italia di Vivendi, che ne raccolse la difficile eredità e nuove perdite.


Nel frattempo non solo i grandi azionisti di Tim-Telecom ci hanno lasciato le penne a causa di gestioni a dir poco discutibili quando non intralciate da registi inadeguati, ma anche mezzo milione di piccoli soci si sono trovati a dover fare i conti con un titolo che, un tempo prodigo di lauti dividendi, da anni non produce che perdite.


Purtroppo non è una storia isolata. La chiamata di società finanziarie straniere di varie dimensioni e solidità per “salvare” nostre aziende in crisi ha conosciuto una non lieta e lunga storia di spoliazioni. L’ultima, tanto per citare un caso di dimensioni non grandi, quello della ex Saeco sull’Appennino emiliano.

Si capisce che i sindacati abbiano più di qualche preoccupazione, sebbene anch’essi siano tra quelli che spingono per i salvataggi delle aziende in crisi senza andare per il sottile.


Dunque, bene difendere il nostro carattere di economia aperta perché stiamo nel mondo globale e della circolazione di capitali c’è bisogno, ma questo non significa che siamo il Paese di Bengodi dove tutte le operazioni di avventura finanziaria possono avvenire senza cautele e regole. Anche perché, vogliamo dirlo, non è che nelle operazioni di intervento dall’esterno manchino poi interessi di casa nostra che si schierano per Tizio o Caio nell’illusione che questo porti vantaggi in proprio e non preluda ad amare dipendenze. Quando andava di moda un po’ di storia si ricordava l’esempio dei vari staterelli italiani che fra il XVI e il XVII secolo chiamarono a sostegno gli stranieri e sappiamo come è andata a finire. Forse anche oggi qualche cauto ripasso non guasterebbe.


Il mantenimento del nostro patrimonio nelle mani di chi un tempo lo ha creato non dovrebbe essere un tabù. Cominciamo a dire che andrebbe valutato se davvero in Italia non abbiamo riserve finanziarie non pubbliche da mettere in campo. Dimentichiamo la mistica dei “capitani coraggiosi”, non proprio un grande esempio, e proviamo a ragionare per esempio sulle disponibilità in mano ai nostri fondi pensione. Quelli esteri possono fare impresa, da noi è considerato pericoloso, persino sconveniente. Val la pena di continuare a pensarla così o possiamo ragionarci, naturalmente con tutta la responsabilità del caso?


Infine il tema, niente affatto secondario, delle implicazioni per il nostro “sistema istituzionale” di perdere il controllo su asset strategici. Il governo ne è consapevole ed ha messo al lavoro una commissione di livello per analizzare il problema. Il tema è il controllo della “rete” di comunicazione che appartiene a Tim in quanto erede della defunta “compagnia nazionale” che impiantò il sistema. Palazzo Chigi dispone del golden power per il controllo, che gli consente di bloccare qualsiasi operazione contraria all’interesse nazionale. Ma forse si può lavorare senza ricorrere all’arma suprema. Se per esempio si scorpora la rete da Tim portandola in mani a controllo pubblico - sempre che sia possibile e non vengano lesi i diritti del mercato - ci sarà ancora interesse da parte di questi investitori ad acquisire solo una compagnia commerciale che vende servizi legati alla connettività? Il fondo Kkr, che ha fama di essere un investitore di lungo periodo, ha solo avviato un processo, c’è tempo e modo per verificare il quadro e conformarlo all’interesse pubblico.


C’è naturalmente anche un tema di alleanze internazionali, non ci sfugge. Stiamo per concludere un importante trattato con la Francia che ha ricadute rilevanti sulla politica mediterranea. Non è però detto che l’Eliseo sia interessato a sostenere per principio una presenza di capitalismo francese che ha i suoi addentellati in quote del nostro, ma soprattutto noi diventeremmo partner deboli di quell’accordo se non mostrassimo altrettanta consapevolezza degli interessi nazionali di quanta ne hanno a Parigi. La questione non è marginale, vale la pena di dedicarvi qualche riflessione.
 

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