I progetti Recovery/ La falsa partenza che non può ripetersi

I progetti Recovery/ La falsa partenza che non può ripetersi
di Francesco Grillo
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Martedì 15 Settembre 2020, 00:40 - Ultimo aggiornamento: 12:57
Ci sono due pericolosissime leggende metropolitane che circolano in Italia a proposito della “montagna di soldi” che starebbe arrivando dall’Europa. La montagna però rischia di partorire l’ennesimo ridicolo topolino, anzi di scaricare ulteriore debito sulle spalle delle ragazze e ragazzi che ieri – con entusiasmo e fatica – sono tornati a scuola, se non cambiamo passo, metodo, approccio ad una crisi che è decisiva: non solo come Governo, ma come Paese, persino come sistema informativo.

Due abbagli, dunque. Il primo clamoroso è quello di percepire queste risorse come una manna che scende al cielo per volontà di qualche nume benevolo: esse vanno, invece, restituite come rimborso di prestiti che decidessimo di contrarre con la Commissione; o come, invece, maggiori contributi di un bilancio comunitario che è cresciuto per finanziare maggiori sussidi a “fondo perduto”. Il secondo errore – tecnico - è dimenticarsi che le istituzioni comunitarie pongono (nelle primissime righe delle risoluzioni del Consiglio Europeo su “Next Generation Eu”) tempi assai stretti per utilizzare queste risorse: entro il 2023 per assumere tutti gli impegni; ed entro il 2026 per completare tutte le spese (ed arrivare, per capirci, al collaudo e alla fruizione di qualsiasi opera pubblica che volessimo realizzare). 

L’elenco dei cinquecentottantasei (586) progetti presentati dai ministeri e raccolti dal Mef – in uno stadio dello sviluppo del Piano per l’Italia che il ministro Amendola ha poi definito “ampiamente superato” e da non prendere in considerazione – è comunque utile a capire quali sono gli errori di un metodo che, invece, nel passato abbiamo abbondantemente utilizzato e che ha prodotto fallimenti a catena (ad esempio, nell’utilizzazione dei fondi strutturali destinati al Mezzogiorno). Del resto, che ci sia bisogno di cambiare modulo di gioco e, forse, persino giocatori, deve averlo capito lo stesso Governo che ha provato a riscrivere le regole della partita dettandone, la settimana scorsa, le “linee guida” per il Recovery. 
I progetti di quella lista uscita per errore (o peraltri motivi) sono, ovviamente, troppi per poter essere governati con la celerità che dobbiamo alle imprese e ai lavoratori che, da mesi, galleggiano sui sussidi che stanno finendo. Il loro importo totale è pari a 677 miliardi (e ancora non abbiamo preso in considerazione le richieste che Regioni e città devono avanzare) e, dunque, quasi pari all’intervento immaginato come sostegno all’intera Unione Europea. Infine, poi, quattro quinti delle iniziative che quel documento immaginava, presenta una durata – superiore ai tre anni – che rischia di essere non compatibile con i tempi voluti dal Consiglio Europeo. 

Qualche giorno fa, il think tank Vision ha provato a proporre uno schema di lavoro a partire dal quale accademici, recentemente affiliati a partiti politici assai diversi (Lega, Pd, Italia Viva, M5S e Leu), hanno identificato cinque criteri che possono fare la differenza nello sviluppo di un Piano per l’Italia credibile (quanto, ad esempio, quello recentemente proposto dal Governo francese).

Sui tempi è, innanzitutto, fondamentale operare una selezione di progetti che, contemporaneamente, garantiscano tempi di spesa rapidi (entro il 2023) e che, tuttavia, vadano a colpire quelle variabili che determinano il tasso di crescita di lungo periodo dell’Italia attraverso un aumento di quello che gli economisti chiamano Tfp (Produttività totale dei fattori) e che sempre di più si associa alla quantità di conoscenza (non riproducibile attraverso la copia) che un sistema possiede. In questo senso, è probabile che un investimento come il Ponte sullo Stretto vada riconsiderato in un altro ambito; e che, invece, piccoli e numerosi interventi di edilizia scolastica siano funzionali a quell’obiettivo di scuola a “tempo pieno” per tutti che può segnalare una svolta.

In secondo luogo, è importante raggiungere – stavolta – quanto più velocemente possibile i singoli operatori economici (famiglie, studenti, imprese, lavoratori) senza perdere risorse nei lunghissimi processi che sono intermediati da chi vive di finanziamenti pubblici (fu questa, del resto, la maggiore debolezza di anni di intervento per il Mezzogiorno). Se vogliamo incoraggiare la transizione ad una mobilità più intelligente, è più utile, ad esempio, tassare chi possiede tecnologie ormai obsolete (automobili alimentate con carburanti fossili) come, del resto, ci chiede la Commissione, e studiare, città per città, un piano che le liberi – entro una certa data – di consumi non più sostenibili.

Fondamentale, poi, sarebbe costruire meccanismi che garantiscano che per ogni euro che spendiamo c’è un euro di investimento da parte di un finanziatore privato che è disponibile a scommettere con lo Stato sullo stesso progetto. Creare fondi chiusi che mettano insieme capitali pubblici e privati alla ricerca di intere filiere di valore potenziale; sollecitare quote di ricchezza privata attualmente inerte per generare benessere sociale diffuso (attraverso strumenti di “finanza d’impatto”) può riuscire nel miracolo di ridurre i tempi di selezione dei progetti e aumentare la qualità della scelta dei beneficiari.

L’intero Piano, infine, deve, assolutamente, cominciare da un’idea precisa del tipo di Paese che vogliamo costruire in tempi medi (non brevissimi per essere realistici, ma neppure troppo lunghi per fare in maniera che una classe dirigente risponda delle scelte fatte) e di ciascun progetto, dell’iniziativa di ciascun ministero dobbiamo misurare il contributo potenziale al raggiungimento di quello obiettivo. Se sul Sud vogliamo puntare, dobbiamo, quantomeno, prometterci l’obiettivo di voler vedere entro il 2027 tre o quattro delle sette Regioni italiane attualmente meno sviluppate, passare alla condizione di non dover più farci chiedere all’Europa ulteriori risorse. Va bene perseguire, dappertutto, il digitale, ma ci deve essere, subito, la consapevolezza che le tecnologie servono solo se risolvono – in maniera misurabile – problemi concreti e deve essere questo il problema che qualsiasi idea di digitalizzazione deve porsi per non rimanere catturata dagli interessi di micro lobbies.

Uno sforzo di programmazione che mai l’Italia ha visto negli ultimi trent’anni (ci sarà da raddoppiare ciò che abbiamo speso in investimenti pubblici da vent’anni a questa parte) non può partire dalle liste della spesa di un’amministrazione pubblica abituata a riti inutili. E neppure da task force animate da manager che donano pezzi piccoli del proprio tempo in maniera gratuita (e non necessariamente disinteressata). Bisogna, davvero, partire dalla consapevolezza che siamo all’ultima spiaggia. Da una leadership pronta a giocarsi su questa partita le possibilità di sfuggire alla maledizione che vede perdente alle elezioni successive chiunque abbia provato a governare questo Paese. E, dunque, a cercare il confronto con metodi, metriche, ambizioni, intelligenze che la politica non riesce più a coinvolgere da tempo.
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