Giulio Sapelli

Ritorno allo Stato/ Lo spirito d’impresa che manca per la crescita

di Giulio Sapelli
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Lunedì 21 Giugno 2021, 00:10 - Ultimo aggiornamento: 00:11

Tra qualche anno si celebrerà il centenario dell’entrata in campo dell’imprenditore Stato, che salvò con una innovazione straordinaria giuridico-economica l’economia italiana dal crollo della grande crisi del 1929 e che proseguì nel Secondo Dopoguerra con l’Eni e l’Enel sull’onda della ricostruzione dell’economia mondiale. L’Italia con le sue Partecipazioni Statali fece scuola in tutto il mondo, dal New Deal di Franklin Delano Roosevelt al laburismo britannico. 

Negli anni Novanta del secolo scorso l’equilibrio internazionale con il crollo dell’Urss cambiò rotta e non poteva che seguirne anche in Italia un’ondata di privatizzazioni: furono le più imponenti su scala planetaria per volume di capitalizzazione, ma lontane quanto mai dalle regole della buona governance internazionale. Fu una necessità, ma senza liberalizzazioni e rispetto delle regole della concorrenza si procedette senza una visione del futuro. 
Oggi, al succedersi di crisi economiche senza interruzioni a partire dal 2007 si è unita l’ultima catastrofe pandemica, che ha bruscamente interrotto le catene verticali e orizzontali che legavano le imprese su scala planetaria e riproposto il problema della morte e della contaminazione in un pianeta polarizzato tra integralismi religiosi da un lato e secolarizzazioni neo-pagane dall’altro. Ed ecco allora il riproporsi in forme diverse del ritorno dello Stato azionista ed imprenditore in economia.

L’Italia non poteva che spiccare per la sua particolarità: oggi non è più tempo di primati giuridico-economici come negli anni Trenta, e neppure di esempi preclari di non rispetto delle regole come accadde negli anni Novanta. Oggi si vuole governare per enti e lo si fa spartendo il potere politico. E lo si fa con entità giuridiche che non sono sottoposte alle regole della pubblica amministrazione e quindi non fanno debito contabile pubblico ma finanziario, attingendo sia al risparmio postale sia ai mercati mondiali, come è il caso della Cassa depositi e prestiti. Insomma, ancora una volta si sbagliano le modalità: le grandi imprese pubbliche del secondo dopoguerra nacquero dopo un conflitto mondiale e una crisi epocale e il progetto riusci perché furono dirette da uomini eccezionali che oggi non si vedono più all’orizzonte. Proprio per questo sarebbe necessario disporre da subito di una teoria che guidi l’azione, una politica industriale degna di questo nome.

Invece si cammina come i “ciechi di Brueghel”, puntando tutto su crescenti quote azionarie delle aziende pensando così di risolvere i problemi.

Piuttosto che entrare nel capitale costruito con generazioni di fatiche e innovazioni imprenditoriali artigiane, le imprese italiane hanno invece bisogno dell’elevazione della cosiddetta “produttività totale di sistema”, ossia di quel complesso di efficienti infrastrutture, di efficaci servizi avanzati che sono essenziali per tutta la vita sociale e culturale di una nazione. Mi riferisco a quei “beni pubblici“ che sono la sostanza stessa dello Stato e della convivenza civile: ossia una magistratura fondata sulla divisione delle carriere, un sistema intermodale di logistica e di spedizione delle merci, un sistema educativo che consenta parità di accesso a ogni grado di istruzione a tutti i volenterosi, senza distinzioni di censo. Con un articolo su “Il Foglio” del 18 giugno, Franco De Benedetti ha posto questa questione fondamentale affinché se ne discuta pubblicamente concentrandoci sull’alternativa che si pone dinanzi all’Italia in un momento storico come quello segnato dalla mutualizzazione del debito europeo e dai denari che potranno essere investiti in una Italia piagata dalla contaminazione pandemica.
Non si può, tuttavia, esorcizzare in questo modo il problema della necessità di ritrovare quello spirito imprenditoriale che è stato sempre la risorsa fondamentale della nostra nazione, una nazione che da più di trent’anni non cresce. Non cresce proprio perché quelle essenziali riforme che elevano la produttività totale del sistema non sono state fatte e debbono esserlo invece nel più breve tempo possibile. Ma il modo migliore per farlo è alimentare e non spegnere il fuoco dell’innovazione imprenditoriale, come invece la statalizzazione strisciante sta facendo. Le risorse finanziarie sottratte a impegni più produttivi e i domini proprietari calati dall’alto come si sta facendo nell’acciaio, nella distribuzione elettrica, nelle tlc, nel trasporto aereo, richiamano gli esiti disastrosi del passato: sempre pervicacemente perseguiti, quei piani non sono mai stati sufficienti per garantire la crescita di cui soprattutto oggi abbiamo un gran bisogno. È l’ultimo avviso prima di una decadenza che potrebbe rivelarsi inarrestabile. 
 

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