Paolo Pombeni
Paolo Pombeni

Oltre le urne / Il passaggio obbligato della riforma fiscale

di Paolo Pombeni
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Venerdì 19 Agosto 2022, 00:14

Sarà una legislatura impegnativa quella che si apre il 26 settembre e non solo per la previste difficoltà economiche dovute a questa congiuntura storica particolare. Due temi gettati un po’ alla leggera nel dibattito elettorale meriterebbero riflessioni e non sventolar di facili bandierine. Ci riferiamo alla questione della riforma del nostro sistema politico in direzione presidenzialista ed a quella sul tema del fisco su cui intervenire in maniera pesante. Si potrebbe pensare che fra i due temi non ci siano connessioni, ma non è così, perché entrambi rimandano al problema della legittimazione consensuale dei sistemi politici costituzionali.
Ci rendiamo conto che sono argomenti complicati che mal si prestano ad essere analizzati in una campagna elettorale che punta più a muovere “la pancia” dell’elettorato che non a prepararlo a capire i nodi dei passaggi difficili che ci attendono.
Ci stupisce un poco però che non trovino adeguata considerazione nei ceti dirigenti che spesso sembrano spinti a farsi coinvolgere nl fuoco delle passioni partigiane.
La ricerca di un regime politico che maggiormente metta in relazione le scelte dell’elettorato e la determinazione di chi si vedrà affidato il compito di realizzarle è un tema antico. Nella nostra stessa assemblea costituente del 1946-47 fu affrontato e come disse il presidente della commissione (...) che predispose la bozza della nuova Carta, Meuccio Ruini, non mancavano quelli, lui incluso, che guardavano al modello del presidenzialismo americano. Ma non se ne fece nulla perché, come disse esplicitamente, vi si opponevano le ombre di Napoleone, Mussolini ed Hitler. Il tema è ritornato più volte, a partire dallo shock della riforma costituzionale francese di De Gaulle ad inizio anni Sessanta, con la variante di possibili elezioni dirette o indirette del primo ministro.
Ora in questo caso le questioni che meriterebbero di essere discusse in premessa sono due, tra loro assai connesse. La prima è come si possa avere una elezione diretta del vertice del nostro sistema politico in modo che questa non dia origine ad una specie di guerra civile a bassa intensità tra vincitori e vinti. Perché ovviamente il sistema deve prevedere che a fianco di una maggioranza che vince ce ne sia una che perde, mentre il vincitore dovrebbe rappresentare tutti ed essere legittimato poi da tutti. Un risultato non semplice in un paese come il nostro attraversato da una lunga tradizione di lotta fra guelfi e ghibellini (usiamo questa metafora per riunire le contrapposizioni di più di un secolo e mezzo di storia nazionale). Per di più qualcosa che tende a riproporsi nel momento stesso in cui si apre il dibattito, con una parte che a priori vede nel meccanismo il modo per ottenere una vittoria che ritiene le sia stata negata con marchingegni di ingegneria costituzionale e un’altra che subito grida al bonapartismo alle porte, se non proprio al fascismo, in ogni caso al tradimento del nostro sistema democratico.
Qui si salda il secondo aspetto della questione. Il cambiamento è così delicato da non potere essere risolto semplicemente con una “modifica della Carta” da affidare, sia pure con gli aggravi previsti, ad una maggioranza parlamentare poi verificata dal prescritto referendum. Pare infatti difficile e sinceramente poco auspicabile che nel quadro attuale si verifichi una modifica del genere con i due terzi dei suffragi parlamentari. Dopo le intemerate iniziali, i più responsabili del centrodestra hanno già parlato della necessità di passare quantomeno per il lavoro di una commissione bicamerale (visto come sono finite le precedenti non porta bene) se non per l’elezione di una vera e propria assemblea costituente. 
Questo dovrebbe portare alla conclusione che per avviare un percorso che prevede un complesso cambio di regime politico, da quello parlamentare a quello presidenziale, occorre in premessa garantire che si lavorerà a costruire una proposta che non solo veda il coinvolgimento fecondo della più ampia quota possibile delle forze politiche, sociali ed intellettuali del paese, che non consenta colpi di mano e di testa, che abbia a cuore la difesa degli spazi di dialettica e di azione per tutte le componenti del sistema (quello che in sintesi si definisce il sistema di “checks and balances”).
Non ci pare ci sia al momento alcuna rilevante riflessione su questi passaggi. Così veniamo alla questione fiscale. Qualcuno ricorderà che una delle origini del costituzionalismo occidentale è la famosa massima del “niente tasse senza rappresentanza”: doveva impedire che il governo (del re) imponesse prelievi senza una condivisione del loro utilizzo da parte di un sistema rappresentativo. Ovviamente si partiva dalla consapevolezza che la spesa pubblica andava per forza di cose finanziata con dei prelievi sulla ricchezza nazionale, vuoi in forma indiretta vuoi in forma diretta.
Oggi siamo arrivati al punto, non certo solo in Italia, per cui il sistema rappresentativo non offre sufficienti garanzie di controllo sul sistema dei prelievi dalla ricchezza dei cittadini, anzi spesso funziona in modo da produrre continua esigenza di nuovi finanziamenti perché i vari settori della “rappresentanza” chiedono interventi a tutela, ma spesso anche semplicemente a favore dei loro protetti. Così siamo arrivati al mito dell’affamare la bestia: tagliamo le tasse in modo lineare così il cittadino avrà meno oneri e non ci poniamo il problema di come finanziare una spesa pubblica che unisce risposte a problemi seri e sprechi.
Il mito per cui l’imposizione fiscale è un modo per mettere le mani nelle tasche dei cittadini è frutto di una demagogia volgare, ma c’è l’esigenza di riportare il sistema di finanziamento della sfera pubblica a razionalità sottraendolo a quella che si potrebbe chiamare la strategia del Passatore, mitico brigante romagnolo: quando voglio finanziare questo o quello mi apposto all’angolo delle strade e sottraggo qualcosa ai viandanti, che anzi magari manco se ne accorgeranno perché lo farò con destrezza mettendo quel prelievo a debito delle generazioni future.
Un lavoro di riordino del nostro complicatissimo sistema fiscale è quanto mai necessario e sarebbe un mezzo per ricostruire un rapporto di fiducia fra i cittadini e il sistema pubblico (non c’è solo lo Stato, regioni ed enti locali sono altrettanto produttori di domanda più o meno indiretta di tassazione e di deficit). Se si uscirà dalle fantasie sulle tasse piatte, su aliquote buttate lì giusto per vedere l’effetto che fanno, si potrà davvero avviare quella riforma della tassazione che è un tassello fondamentale della ricostruzione del nostro sistema democratico.
Tanto la questione che va sotto l’etichetta di presidenzialismo quanto quella della riforma fiscale (quest’ultima in parte già avviata dal governo Draghi con un provvedimento pendente al Senato) sono due ottime occasioni per mostrare quanto il nostro sistema politico sia in grado di affrontare il passaggio storico che abbiamo davanti.

Quello che a colpi di demagogia e populismo non si riuscirà a prendere in carico.

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