Alberto Brambilla
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La riforma 2023/ Così le pensioni annulleranno l'effetto inflazione

di Alberto Brambilla
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Giovedì 30 Giugno 2022, 00:07

Buone notizie per i pensionati, che saranno gli unici italiani a recuperare appieno il potere d’acquisto delle loro rendite svalutato pesantemente in questi ultimi mesi. Infatti, a decorrere dal prossimo 1° gennaio le loro pensioni recupereranno tutta l’inflazione del 2022 che, secondo il comunicato Istat di maggio 2022, ha registrato un aumento dello 0,9% su base mensile e una crescita del 6,9% su base annua.
Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio, ipotizzando un’inflazione superiore di due punti rispetto al 5,8% previsto nel Def per il 2022, la rivalutazione delle pensioni all’inflazione costerà allo Stato circa 32 miliardi lordi nei prossimi tre anni (5,7 miliardi nel 2023, 11,2 nel 2024, 15,2 nel 2025) che andranno a beneficio degli oltre 16 milioni di pensionati, la metà dei quali è già oggi parzialmente o totalmente a carico della collettività. In realtà l’esborso per le finanze pubbliche sarà inferiore di almeno un quarto, perché sui pensionati, a partire da quelli che hanno pensioni superiori a 2/3 volte il minimo (1.050 o 1.575 euro) grava l’Irpef che nel 2021 è stata pari a 56 miliardi circa su un totale di 235 miliardi di spesa pensionistica (circa il 24%) per gran parte a carico dei 5 milioni di soggetti con rendite sopra 3 volte il minimo dato che la metà circa dei pensionati è parzialmente o totalmente assistita e quindi anche esente Irpef. 
Come si è giunti alla rivalutazione piena prevista dalla riforma del 1988 e disattesa per anni? È stato il governo Draghi che nella legge di bilancio per il 2022, dopo oltre 3 anni di rinvii, ha ripristinato le rivalutazioni delle pensioni adottata dal governo Prodi nella legge di bilancio del 1996 che prevedeva una rivalutazione per “scaglioni” del 100% fino a 4 volte l’importo minimo (2.097 a valori 2022), al 90% sulla quota da 4 a 5 volte il minimo (tra 2.097 e 2.622) e il 75% sulla quota di pensione sopra tale ultimo importo. 
Questa rivalutazione, che nel nostro sistema a ripartizione fa parte del “patto” tra lavoratori e Stato (pago i contributi sui redditi che si rivalutano all’inflazione e percepirò una pensione che si rivaluta anch’essa all’inflazione) è stata mantenuta fino al 2010 dai governi D’Alema, Amato e Berlusconi; poi nel 2011 iniziano i tagli selvaggi: il Salva Italia del governo Monti, all’interno della riforma Fornero, blocca per il 2012 e il 2013 l’indicizzazione per tutte le pensioni superiori a 3 volte il minimo. In pratica il governo dei tecnici ha rivalutato le pensioni di quelli che non avevano mai versato i contributi o ne avevano pagati pochi lasciando a bocca asciutta chi la pensione se l’era pagata: un paradosso sanato solo con l’intervento della Corte Costituzionale che, con sentenza numero 70/2015, dichiarò incostituzionale quel blocco e il governo Renzi dovette intervenire per restituire seppur parzialmente e in ritardo una parte del maltolto ai pensionati tra 3 e 6 volte il minimo. 
Poi tocca al governo Letta, che cambia il criterio degli scaglioni che consentono alle pensioni la rivalutazione corrispondente a ciascuna quota di pensione e inserisce la rivalutazione a “fasce”; ne introduce 5 e a ciascuna corrisponde un’aliquota di rivalutazione pari al 100% fino a tre volte il minimo, 90% da 3 a 4 volte, 75% da 4 a 5 volte, 50% da 5 a 6 volte e 17,84 euro fissi sulle altre fasce di pensione ma a differenza degli scaglioni nel caso delle fasce l’intera pensione si rivaluta in base alla percentuale più bassa. 
Esempio: un lavoratore che ha una pensione tra 5 e 6 volte il minimo avrà l’intera pensione rivalutata al 50% mentre chi è sopra non recupera nulla. Il successivo governo Renzi rivaluta solo le pensioni fino a 3 volte il minimo e per le altre solo qualche punto percentuale mentre quello guidato da Gentiloni è più generoso, lascia le 5 fasce ma con una rivalutazione maggiore. Nel 2018 il governo giallo-verde pur di non tornare alla legge Prodi, così come prevedeva la legge di bilancio del 2016, portò le fasce da 5 a 7 con rivalutazione dell’intera pensione alla percentuale più bassa; secondo l’Upb circa 6 milioni di pensionati subirono un taglio di 3,6 miliardi che l’allora premier Conte liquidò dicendo che si trattava di qualche euro al mese e che neppure l’Avaro di Molière se ne sarebbe accorto; l’Inps, presa in contropiede, prima pagò gli assegni con il metodo Gentiloni poi, dopo le elezioni europee del maggio 2019 che portarono la Lega al 34%, richiese indietro i soldi con trattenute automatiche. 
Ma il Conte 1 non si limita a ridurre le rivalutazioni: addirittura taglia senza alcun criterio i cosiddetti pensionati d’oro che hanno il solo torto di avere pensioni sopra 100mila euro lordi (meno di 60 netti); alla maggior parte di questi 36mila sfortunati, se si fosse applicato il metodo di calcolo contributivo, vantato da Conte, si sarebbe dovuto addirittura aumentare la pensione. In questo caso la Consulta, smentendo se stessa, disse che andava bene così salvo ridurre il periodo dei tagli proposti da Conte e Salvini, gli stessi che oggi pretendono a gran voce di aumentare le pensioni, da 5 a tre anni.
Addirittura la Lega, dopo il flop di Quota100 costato oltre 23 miliardi senza alcun risultato, propone di indicizzare le pensioni ogni tre mesi; forse una regolata e un maggior senso dello Stato e di rispetto dei giovani su cui caricano, come animali da soma, un debito pubblico insostenibile, non sarebbe male. 
Quindi da gennaio 2023 le pensioni verranno rivalutate all’inflazione del 2022 in modo automatico alla luce dell’attuale legge senza bisogno di ulteriori provvedimenti né accantonamenti di bilancio. Del resto negli ultimi 8 anni a fronte di un’inflazione inferiore al 3%, le pensioni non sono state praticamente rivalutate nonostante nei calcoli di sostenibilità si consideri sempre un’inflazione di circa il 2% annuo.
Ulteriori ripensamenti oltre a essere ingiusti, sono complicati sia per evitare un «no» della Corte Costituzionale sia perché tra pochi mesi ci sono le elezioni: ve l’immaginate gli strilli della nostra politica pauperista e assistenzialista e dei sindacati se si dovesse tagliare l’indicizzazione

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