Anna Coliva

Mercati indeboliti/ Il protezionismo che fa male alla nostra arte

di Anna Coliva
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Martedì 21 Marzo 2023, 00:03

Dopo la cauta edizione post-Covid del giugno scorso, quest’anno Tefaf, la più grande fiera antiquaria del mondo è andata in scena nel pieno delle sue potenzialità confermandosi, con 270 gallerie presenti a rappresentare tutte le possibili declinazioni delle epoche e degli stili dell’arte, la palestra necessaria a collezionisti, mercanti, direttori di museo per esercitare il proprio acume su inediti e scoperte. 

Molte le proposte allettanti e tra queste ne vanno segnalate almeno due, imprescindibili per i musei italiani per l’aderenza ai principi storico-critici che governano la conservazione del nostro patrimonio: l’appartenenza e l’integrità. La prima è il bronzetto raffigurante papa Paolo V che apparteneva alla collezione Borghese sino all’asta leggendaria del 1892 e dove sarebbe imperdonabile non facesse ritorno. In un museo fiorentino dovrebbe invece trovar posto il gruppo scultoreo in dimensioni ridotte del monumento a Ferdinando I di Toscana eseguito da Ferdinando Tacca.

Tefaf permette anche di verificare i dati degli studi di settore, cioè che la percentuale occupata dall’Italia nel mercato europeo dell’arte è davvero esigua, il 2% a fronte del 55% della Francia e del 13% della Germania, per un impatto economico comprensivo dell’indotto pari a 3,78 mld annui. Quello del cibo per cani è di 2,5 mld. E questo nonostante la bravura, la competenza ed originalità dei suoi antiquari. Vuol dire che ci sono delle condizioni oggettive che marginalizzano il nostro mercato di cui collezionisti e mercanti sono costretti a sopportare le conseguenze. Il contesto italiano di provenienza è infatti di ostacolo anziché di sostegno, depresso dal costante fraintendimento delle finalità delle norme di tutela dietro cui si barricano timori e incertezze applicative che, riversate sulla normativa stessa, ne provocano la distorsione. 

Quella che si applica attualmente non sempre è tutela, spesso è il suo effetto perverso, generato da un’applicazione meccanica, impiegatizia, timorosa di conseguenze e responsabilità da parte di tecnici che non hanno le specifiche e necessarie conoscenze o il senso responsabile delle finalità. L’incertezza dei tempi e dei modi rende il vincolo una sorta di punizione del possesso e penalizza il collezionismo, spingendolo verso il mercato esterno con le relative perdite per l’indotto e l’erario. Il mercato deve invece essere riconosciuto come campo di interessi, privati e pubblici. L’importante è la distinzione, chiarezza e integrità dei ruoli. Da sempre si capisce cosa un direttore di museo, un docente universitario, un funzionario di soprintendenza possa fare e cosa non debba o non sia opportuno faccia. 

Il confine è certo. E quel confine è utile anche agli antiquari, per difenderli dalla bassa qualità e dalle concorrenze oscure o illecite. Al contrario sarebbe necessaria una profonda trasformazione che superasse l’antagonismo tra integralisti ciechi e traffichini svelti. L’effetto di un mercato reso asfittico e carico di incognite che impediscono la circolazione delle opere italiane, è che le sottrae alla vivacità degli studi e condanna interi ambiti culturali che non siano quelli più ovvi e acclarati all’irrilevanza critica e all’oblio.

Allo stesso modo i criteri di applicazione degenerati nel giudizio individuale e personalistico del ‘gusto’, avulso da reali basi giuridiche sin quasi all’abuso, conducono a trascurare anche il criterio fondamentale del vincolo che è quello identitario e di integrità del contesto. Ma se è semplice individuare tale caratteristica per pale d’altare commissionate per un luogo o per interi nuclei storici di collezioni, quale è il contesto per opere dall’origine e per scopo destinate al mercato? E qui gli esempi sono innumerevoli e sin troppo ovvi a cominciare da Canaletto o da Luca Giordano. Il loro contesto di appartenenza era appunto il mercato e lì devono andare, in perfetta sintonia con la legge Bottai. Ed è qui che entra in gioco la massima competenza di chi giudica.

Ora questo argine fa particolarmente male all’arte moderna e contemporanea italiana in un settore dove invece andrebbe affermata agevolandone la circolazione e la presenza sul mercato internazionale, necessarie in un ambito di competitività mondiale particolarmente acceso.
Per le opere dal XX secolo le restrizioni andrebbero non riviste ma abolite perché sono norme fuori dai parametri di legge e dai principi ispiratori idealistico identitari del vincolo e quindi non più applicabili: per la semplice ragione che a partire dal Novecento non esistono più le nazioni dell’arte. Di conseguenza impedirne la circolazione in quanto arte nazionale di valore identitario contraddice la legge stessa. Di che nazionalità è Picasso? E de Chirico? E Cattelan? “L’eccezionale interesse per l’integrità del patrimonio” come recita la legge, riguarda l’integrità del patrimonio di Città di Castello o di Chicago, dove Burri nacque come artista? O della California dove visse? E per Fontana riguarda il patrimonio culturale di Rosario di Santa Fe’? Impegnati a rinchiuderci nella protezione che ci rende del tutto marginali se non irrilevanti, non comprendiamo le novità. Quella per esempio che nascerà dall’inevitabile smobilitazione da Londra -causa Brexit-del mercato mondiale dell’arte. Eccezionale opportunità compresa invece da Parigi che sta creando le basi operative per tale spostamento annettendosi Art Basel, che assicurerà alla città un indotto impressionante. È così che con la cultura si mangia davvero. 

A contrario, chiudersi in un protezionismo autoreferenziale circoscritto a feticci identitari pochissimo usati nella pratica ma molto abusati nella retorica porta al disvalore, al deprezzamento, alla marginalizzazione proprio nel nome della rivendicazione di ‘arte nazionale’. Che è solo un fortino provinciale assediato dalla forza vitale della contemporaneità. Che naturalmente lo travolgerà.

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