Francesco Grillo
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Calcoli errati/ L’assenza di strategie che rallenta il Green deal

di Francesco Grillo
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Lunedì 14 Febbraio 2022, 00:00

«Questo è per l’Europa, il nostro momento dell’Uomo sulla Luna». Fu con questa parabola ambiziosa che il presidente Ursula von der Leyen annunciò poco più di due anni fa, poco prima che un virus venuto dalla Cina fermasse tutto, la decisione della Commissione Europea di proporre al Parlamento continentale e al Consiglio dell’Unione, il “patto verde” (Green Deal) che avrebbe dovuto orientare tutte le altre decisioni e politiche di sviluppo.

Dopo due anni, l’idea di un contratto sociale fondato sull’ambiente che è, prima di qualsiasi altra cosa, un patto tra generazioni è entrato persino nella Costituzione Italiana. E, tuttavia, la domanda è: sta funzionando? Stiamo riuscendo a invertire la rotta del Titanic sul quale siamo seduti e che continua a navigare verso gli unici iceberg che sembrano non volersi sciogliere? La sensazione è che l’Unione Europea (e, soprattutto, la Commissione) stia lavorando tantissimo a questi obiettivi e che, però, ci sia un errore di metodo che continua a rendere molti impegni encomiabili ma poco efficienti.

Il patto che l’Unione Europea propone ai suoi cittadini è estremamente ambizioso: non tanto per la promessa di arrivare ad emissioni nette (nette perché parte dell’anidride carbonica emessa può essere riassorbita aumentando, ad esempio, la dimensione boschiva) pari a zero nel 2050. 

Ma perché già nel 2030 ci impegniamo a ridurre del 55% tale valore rispetto al 1990. Ciò significa che l’Europa che è riuscita – come evidenzia il grafico che accompagna questo articolo - a ridurre del 20% le emissioni in 30 anni a partire dal 1990, si propone di abbatterle di un ulteriore 35% (per arrivare al 55) in soli altri 8 anni (che ci separano dal 2030). Un obiettivo che è, in realtà, non solo encomiabile ma di buon senso se crediamo sul serio che sia vero quello che gli scienziati del mondo continuano a considerare un “punto di non ritorno”. Tale ambizione comporta però dover moltiplicare per sei volte la velocità con la quale stiamo de-carbonizzando l’economia europea. Una sfida che implica una radicale trasformazione di un intero modello di produzione e di consumo alla quale sembrano corrispondere strumenti non adeguati. Concepiti da qualcuno che ha un tempo che forse non abbiamo. Che può permettersi di usare il fioretto per combattere quella che la stessa Presidente della Commissione presenta come una battaglia per la sopravvivenza. Nonché come una grande opportunità di innovazione. 

Un’intuizione giusta che la Commissione Europea ha, è che le risorse pubbliche non bastano: non quelle di Stati fortemente indebitati, ancora di meno quelle proprie della Commissione che non arrivano al 2% del Pil complessivo dell’Unione. Per orientare anche quelle private verso attività sostenibili, la Commissione ha scelto di identificare tali attività con quella che chiama “tassonomia”: l’idea è che rendendo trasparenti quanto “verdi” sono gli attivi di banche, fondi e imprese, ciò porta ad una riduzione del costo che consumatori e risparmiatori pretendono in funzione non solo del rischio ma della sostenibilità di un investimento.

Sono, dunque, 349 le pagine del Regolamento del 4 Giugno del 2021 con il quale la Commissione Europea identifica le attività che contribuiscono alla mitigazione o all’adattamento del cambiamento climatico senza significativi effetti collaterali (Dnsh). Tra un acronimo ed un altro, il regolamento definisce i criteri tecnici che devono essere rispettati in tredici diversi settori e 85 diverse attività – si va dalla manutenzione di piste ciclabili fino alla produzione di acido nitrico. E, tuttavia, la battaglia tecnico–politica che si è scatenata poco più di un mese dopo l’entrata in vigore del regolamento sulla possibilità di includere tra le attività sostenibili la generazione di elettricità da centrali nucleari (di nuova generazione) e da gas (fino però al 2035), dimostra che i problemi di un metodo di questo genere sono almeno due. 

Il primo è che una lista molto dettagliata non riesce a star dietro a innovazioni tecnologiche velocissime: persino il cemento che è oggi responsabile dell’8% delle emissioni mondiali, potrebbe – lo sostiene l’Imperial College di Londra – diventare in futuro uno strumento per rimuovere al contrario gas serra dall’atmosfera. Il secondo è che con regolamenti validi per tutti, perdiamo flessibilità: in questo senso non è irrazionale concepire investimenti selettivi persino in vecchia energia fossile per evitare di bruciare in bollette care il capitale di consenso politico di cui la grande transizione ha bisogno. 

Esiste una strategia alternativa? Sì e va considerata se davvero fossimo coerenti con gli annunci della von der Leyen. Da una parte, dall’alto dobbiamo concentrarci su pochi, grandi obiettivi di politica industriale: ricostruire l’intera filiera produttiva che consenta di produrre energia solare e eolica su grande scala può essere quello su cui far convergere risorse pubbliche e private. Dall’altra, dal basso sono le città, l’ambiente nel quale incoraggiare sperimentazioni di nuovi modelli di consumo (ed in questo senso è assai giusta l’iniziativa della stessa Commissione che sta selezionando cento città per farle tagliare entro il 2030 il traguardo della neutralità e farne un esempio per tutte le altre). In mezzo ci vuole però un sistema di misurazione almeno mensile di quante emissioni produce e consuma ogni territorio e per ogni settore (industria, trasporto, case ...) in maniera che tutti possano avere idea di quanto velocemente stiamo cambiando.

Il paragone che Ursula von der Leyen proponeva tra “patto verde” e missione Apollo era tecnicamente sbagliato. La missione Apollo era una sfida che poteva essere vinta da qualche migliaio di ricercatori della Nasa e un manipolo di astronauti coraggiosi. Il “patto verde” richiede, invece, la trasformazione di abitudini di centinaia di milioni di persone. Serve, subito, un’Unione molto più politica. 
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