Paolo Balduzzi
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Giungla normativa/Il flop del fisco che punisce i lavoratori dipendenti

di Paolo Balduzzi
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Lunedì 6 Giugno 2022, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 21:13

Millecento miliardi di euro in venti anni: cinque volte il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Questo è lo stock dell’evasione in Italia, alimentato in media, negli ultimi anni, da ulteriori 100 miliardi tra evasione fiscale e contributiva. Le parole pronunciate al Festival dell’Economia di Trento da Ernesto Maria Ruffini, direttore dell’Agenzia delle entrate, riaprono un dibattito che in Italia è sempre piuttosto spigoloso. 
Sarebbero 19 milioni gli “evasori” in Italia (cioè coloro che hanno un contenzioso aperto con il Fisco), 16 milioni di persone fisiche e 3 milioni di persone giuridiche. Che, in un Paese di partite Iva, significa sostanzialmente altri 3 milioni di persone fisiche.


Davanti a questa cifra si può reagire in due modi. Il primo è quello forse più naturale, vale a dire scandalizzandosi. Ci si indigna solitamente con il collega che affitta un appartamento in nero, con il vicino che ha la seconda casa al mare ma anche l’asilo nido gratis, con il cugino che ha il reddito di cittadinanza ma qualche lavoretto nell’economia sommersa ogni tanto lo porta a casa. 
Insomma, ce la si prende con il resto del mondo, convincendosi che l’evasore sia sempre qualcun altro. L’altro modo per reagire è quello di provare a ragionare a freddo su questi numeri. Cominciamo con qualche confronto, per avere dei punti di riferimento.


Diciannove milioni di italiani sono ben 3 milioni in più del totale dei pensionati italiani (circa 16 milioni); equivalgono alla popolazione di Lombardia, Lazio e Campania, le tre regioni più popolose dello Stivale; corrispondono alla popolazione italiana che ha meno di 35 anni. I confronti potrebbero continuare: ma il senso generale non cambia. Non sono certo la maggioranza degli italiani, ma non ci manca molto. Che cosa dice questo numero? Se sono così tanti gli “evasori” nel nostro Paese, significa che c’è qualcosa che non funziona nel cosiddetto patto sociale che tiene insieme la nostra nazione, la nostra comunità. Ora, la responsabilità potrebbe essere tutta assegnata agli evasori. Ma non vale forse la pena di chiedersi, se non altro per provocazione intellettuale, se non sia invece vero il contrario? Se non sia, cioè, il sistema fiscale a mettere in dubbio il patto sociale? Del resto, se un terzo della popolazione italiana non rispetta una norma, è del tutto lecito domandarsi se questa norma abbia ancora un senso giuridico.


Ovviamente ci sono questioni di equità, di necessità di tutelare le fasce più deboli della popolazione che non possono essere ignorate. Ma nemmeno si può ignorare un fenomeno di queste dimensioni: o ci convinciamo che siamo un popolo di disonesti oppure ci interroghiamo su cosa non funzioni nel nostro sistema fiscale e tributario. Che cosa, quindi, non funziona? Innanzitutto, si tratta di un sistema troppo complicato e, in particolare per le imprese, al limite del vessatorio. Nel corso del tempo si è diffusa questa idea, sbagliata, che aumentare la burocrazia, ispessire il numero di norme e complicare le procedure avrebbero scoraggiato l’evasione. Niente di più falso, anzi: è proprio vero il contrario. Dice Ruffini al Messaggero, nel colloquio pubblicato ieri: «Abbiamo circa 800 norme tributarie, stratificate nel tempo, e un Testo unico che dalla sua approvazione nel 1986 è stato modificato più di 1.200 volte: in media una ogni dieci giorni. È giunto il tempo di disboscare questa giungla.

Un fisco semplice, in cui sia chiaro quanto dover pagare, non solo rappresenta un principio di civiltà, ma aiuta anche i versamenti spontanei dei contribuenti».


Diciamolo chiaro: la burocrazia rende solo più difficile la vita alle persone oneste; chi evade sistematicamente nella burocrazia ci sguazza, perché sa benissimo che più regole significano anche maggiore difficoltà nel controllare da parte dell’amministrazione tributaria stessa; significa più costi per la società, a fronte dei quali la lotta all’evasione diventa sempre meno conveniente. Troppa burocrazia significa anche maggiori possibilità di errore in buona fede da parte di contribuenti onesti che non sanno raccapezzarsi tra la miriade di norme previste. 
Il caos sul superbonus del 110% ne è un esempio lampante, anche se solo il più recente. E c’è da scommettere che tra quei 19 milioni di casi ci sono contribuenti che oltre ad avere sempre pagato il dovuto hanno dovuto subire lo stress di una comunicazione di pre-accertamento; come c’è da scommettere che in un sistema di questo tipo molti contribuenti rinunciano a priori a dedicare tempo e risorse all’indicazione di tutti gli sconti cui avrebbero diritto, semplicemente perché ritenuto troppo complicato. In questo caso, è la nuova disciplina sull’Assegno unico (falsamente) universale per i figli l’esempio lampante: molte famiglie rinunciano a compilare l’Isee e si accontentano dell’importo minimo, anche se avrebbero diritto a importi maggiori.


Ha davvero senso un sistema tributario e fiscale che scoraggia i cittadini a vantare un diritto e non scoraggia invece gli evasori seriali da comportamenti illegali? Non solo: il paradosso diventa commedia quando si ammette che, una volta individuati, è difficile far pagare gli evasori. Delle suddette 3 milioni di persone giuridiche, per esempio, molte magari non esistono più al momento dei controlli. E questo accade perché la giungla normativa non fa altro che allungare i tempi delle verifiche e la durata delle cause. 


Lo stralcio delle cartelle più vecchie, a quel punto, diventa misura eticamente odiosa ma praticamente necessaria. Il problema è che lo si sa dall’inizio che andrà a finire in questo modo. L’amministrazione tributaria vanta crediti fiscali di anzianità pluridecennale: significa che qualcuno non pagherà mai. E se il politico di turno, magari in campagna elettorale, cederà alla tentazione dell’ennesimo condono, allora al contempo ci sarà qualcuno che evaderà sempre.
Il sistema fiscale italiano è oggettivamente punitivo verso chi paga regolarmente le imposte e in particolare verso chi ha un lavoro dipendente; di fronte al fallimento del “pagare tutti per pagare di meno”, forse è ora di cominciare a ragionare sul “pagare di meno per far pagare tutti”.

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