Francesco Grillo
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Nuove esigenze/ I fondi Ue e il piano “versatile” dell’Italia

di Francesco Grillo
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Mercoledì 28 Luglio 2021, 00:00 - Ultimo aggiornamento: 00:28

«Prima conoscere, poi discutere, poi deliberare». Conservano una modernità severa le parole pubblicate nel 1955 da Luigi Einaudi e contenute in un famoso libello intitolato, polemicamente, Prediche inutili. Già solo sette anni dopo la nascita della Repubblica italiana, il primo Presidente eletto dal Parlamento, docente della Bocconi e corrispondente dall’Italia del settimanale The Economist, avvertiva che è non solo inefficiente, ma illegittimo, imporre leggi e spendere risorse dei contribuenti senza aver, prima, valutato. 

Valutare significa che lo Stato si è preso il tempo di chiarire i propri obiettivi. Di costruirli coinvolgendo i cittadini perché senza la loro energia non si avviano progetti di cambiamento. Di ponderare opzioni alternative per raggiungere quelle finalità e aver garantito che tutti possano controllare esiti che raggiungono la quotidianità di tutti. Da tempo, osservando quasi tutte le politiche pubbliche italiane si ha la sensazione che stiamo guidando un’automobile in un buio che è reso profondo da grandi discontinuità. E a fari spenti. Una condizione che, nel momento, in cui stiamo per giocarci una scommessa finale di 193 miliardi di euro preoccuperebbe molto chi di questa Repubblica fu padre.

Il Piano Nazionale di Rilancio e Resilienza (Pnrr) è, in realtà, condizionato da tre problemi strutturali che lo rendono poco “valutabile”. 

In primo luogo, il Pnrr risente della difficoltà oggettiva di concepire in pochissimo tempo - otto mesi interrotti da una crisi di governo - un progetto di trasformazione complessiva di un Paese che è grande, complicato e in declino da due decenni. Fu giusta l’aspettativa di condizionare gli investimenti alle riforme, ma in otto mesi sarebbe stato difficile ovunque capire per quale motivo negli ultimi vent’anni, quasi tutte le riforme siano fallite e cosa debba cambiare nell’approccio complessivo. 

In secondo luogo, produrre atti di programmazione lunghi o, anche, nuove leggi è reso, oggi, molto più difficile da una rivoluzione industriale che, sempre di più, assomiglia ad una vera e propria mutazione biologica innescata da Internet. La trasformazione implica che strumenti intellettuali concepiti per un secolo più stabile non sono più in grado di prevedere come le società complesse reagiscono a determinati stimoli (finanziari, regolamentari, comunicativi, infrastrutturali). Il fattore tecnologia modifica quella che gli economisti chiamano “equazioni della crescita” e la consapevolezza che “navighiamo in acque non mappate” (come ha più volte avvertito Mario Draghi) dovrebbe spingerci ad un metodo di cambiamento fatto di piccoli esperimenti in grado di produrre la conoscenza utile per dispiegare strategie più ampie. 

Infine, è lo stesso regolamento comunitario (quello del Recovery and Resilience Facility che fornisce il 90% delle risorse che si aggiungono al bilancio comunitario) che rende problematico riprogrammare i Piani nazionali e, dunque, meno utile farne una valutazione che ne comporti un aggiustamento in corsa. È comprensibile la fermezza della Commissione a pretendere cronoprogrammi precisi e risultati specifici (milestones and targets) il cui conseguimento è condizione per il trasferimento delle risorse: la logica della Commissione è, in fondo, quella di evitare che nuove maggioranze (ad esempio, in Italia) stravolgano l’impianto complessivo.

Tuttavia, ciò toglie flessibilità alla programmazione e alza il costo di un eventuale fallimento. Su questo punto i Paesi frugali hanno una posizione che appare, persino, razionale: la prospettiva di ulteriori debiti comuni verrebbe seppellita se Next Generation Eu non conseguisse un obiettivo che, a questo punto, è legato alla possibilità che un singolo Paese – l’Italia – ottenga tassi di crescita stabilmente più alti della media europea. 

Rimane, dunque, per intero il dilemma: come facciamo a massimizzare la conoscenza, la condivisione e, contemporaneamente, la velocità di esecuzione (laddove il Pnrr prevede, addirittura, che il 70% degli impegni di 193 miliardi siano chiusi entro il dicembre del prossimo anno)? Il problema si pone, peraltro, anche per l’altro grande programma di investimenti che si sta per abbattere sull’economia italiana e, in particolar modo, quella del Mezzogiorno. Sui fondi strutturali che, pure, prevedono valutazioni e riprogrammazioni, i meccanismi con i quali le amministrazioni pubbliche comprano “valutazione” hanno chiuso il “mercato” a pochissimi concorrenti che si contendono le commesse con sconti del 40% (come se ad essere oggetto di acquisto fossero rotoli di carta igienica e non servizi ad alto tasso di innovazione).

In realtà, i grandi economisti (quelli che erano in grado di coniugare etica e tecnica) ci ricorderebbero che - su un piano teorico - il dilemma non esiste: maggiore conoscenza significa disegnare interventi fattibili e maggiore condivisione implica che quelle innovazioni troveranno imprese e cittadini pronti a difenderne la realizzazione. Sul piano delle scelte concrete, invece, è fondamentale che un Governo che al pensiero di Einaudi e Caffè si ispira, negozi con la Commissione meccanismi di valutazione, sperimentazione, revisione che siano totalmente legati alle evidenze che, progressivamente, emergano. Del resto, la partita Next Generation Eu si gioca quasi interamente in Italia e l’Italia è guidata, in questo momento, da chi ha il prestigio per porre una questione che è, insieme, di efficienza, di democrazia e, persino, di crescita culturale di un’opinione pubblica senza più riferimenti.

Nel 1948, democristiani e socialdemocratici chiesero ad un liberale di essere il primo Presidente eletto di una Repubblica appena nata, nonostante Einaudi si fosse espresso a favore della monarchia. In quel tempo, le persone cambiavano idea sulla base di confronti ragionevoli e a Einaudi diventato baluardo morale di un grande progetto, successe di diventare il primo - a 81 anni - a sfiorare la rielezione. Ricominciare a studiare una complessità che non possiamo permetterci il lusso di ammirare impotenti, è il primo passo per ridiventare comunità pensante.
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