Giuseppe Vegas*
Giuseppe Vegas*

Oltre la flat tax/ Il percorso in salita per pagare meno tasse

di Giuseppe Vegas*
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Sabato 19 Novembre 2022, 00:20

Tutti vorrebbero pagare meno tasse. Ma rendere concreta questa aspirazione è molto difficile. Il problema è ovviamente di come riuscire a ottenere il risultato senza mettere a rischio il bilancio pubblico. È un tema sul quale tutti i governi si sono sempre arrovellati fino a che, sullo scorcio della fine del secolo scorso, si è pensato di avere trovato la pietra filosofale nella flat tax. La tassa piatta consentirebbe di conseguire contemporaneamente due obiettivi: il sollievo del contribuente e l’incentivo allo sviluppo del Pil, grazie all’accresciuta libertà di azione e al contenimento dei gravami economici che penalizzano chi lavora e produce. Ovviamente a condizione che ci si trovi ad intervenire in una realtà economica omogenea dove non esistano rilevanti contrasti sociali.

La vera questione è però se questo sistema, quello cioè di fissare un’aliquota unica preferibilmente più bassa delle preesistenti, per i redditi delle persone fisiche possa effettivamente conseguire entrambi gli obiettivi.
Se certamente i contribuenti sono felici di pagare di meno, non è sempre dimostrato che la minore pressione tributaria si trasformi automaticamente in una crescita del Pil, e quindi in un vantaggio per l’intera collettività.
Tanto più che, almeno in una prima fase, si dovrà necessariamente assistere ad un calo del gettito fiscale, e quindi si potranno verificare difficoltà per il finanziamento della spesa pubblica. 

Si tratta di un tema non da poco. Infatti spesso si fa ricorso ad alcuni espedienti, come quello di circoscrivere la platea dei destinatari dell’imposta oppure di definire un limite quantitativo di reddito sopra il quale i contribuenti non possano godere dell’agevolazione in questione. Il che muta la natura del tipo di imposta ed è causa dell’insorgenza di una serie di problemi di non facile soluzione. In primo luogo, quello della limitazione della platea dei possibili destinatari.

Si è ad esempio ipotizzato di farne uso esclusivamente con riferimento a specifiche categorie di contribuenti, come le cosiddette partite Iva. In questo caso non si può non osservare che distinguere i contribuenti non in funzione del livello delle entrate di ciascuno, ma delle modalità attraverso le quali vengono conseguite significa discriminare tra contribuenti a parità di reddito e di potere di acquisto. Inoltre, un simile approccio da una parte sposta le convenienze relative dei contribuenti a collocarsi nell’una o nell’altra categoria; dall’altra non è sempre giustificato da ragioni di carattere economico. Se infatti gli autonomi possono dedurre una serie di spese di produzione, in ragione della considerazione della minore sicurezza di ottenere un reddito certo, a differenza di quanto avviene nel caso dei lavoratori dipendenti, l’ulteriore vantaggio offerto dalla tassa piatta dovrebbe essere giustificato sia sotto il profilo economico sia sotto quello giuridico. 

Ed è qui che nasce un primo serio problema. In base all’articolo 53 della nostra Costituzione il pagamento delle tasse è legato alla valutazione della capacità contributiva del soggetto su cui gravano. Orbene, risulterebbe alquanto difficile dimostrare che, a parità di reddito effettivo, la capacità contributiva possa variare in funzione del tipo di lavoro o di reddito conseguito. Sarebbe in sostanza lo Stato che finirebbe per decidere quale debba essere il meccanismo giuridico più conveniente per produrre reddito o magari, un domani, verso quale tipo di attività debbano essere indirizzati i contribuenti.

Si tratterebbe di un approccio da Stato totalitario incurante della fondamentale libertà economica dei suoi cittadini.

Da qui sorge un ulteriore problema. Agevolare il lavoro autonomo a parità di reddito rispetto a quello dipendente potrebbe significare voler incentivare molte imprese a non assumere, spingendo verso la partita Iva intere classi di lavoratori, come accade nel caso di molti giovani. Con la possibile conseguenza che, in ragione del minor livello di imposizione sul lavoro autonomo, alcune imprese potrebbero essere indotte ad offrire retribuzioni più basse. Se non altro ne può derivare un incremento dell’incertezza da parte dei percettori di reddito, sino anche a venir messa in discussione la prospettiva di conseguire i vantaggi che derivano da un lavoro ragionevolmente stabile, tra tutti quello di potersi impegnare in investimenti di lungo termine, casa e famiglia.

Infine, nel caso in cui si preveda un limite quantitativo di reddito per il godimento dei benefici in questione, non si può non osservare come per tale via si verrebbe a creare una sorta di “tetto di cristallo”, insuperabile se si vuole contenere la propria spesa fiscale, ma che obbliga a porre un limite innaturale alla ricerca di un reddito crescente. Inoltre, per tale via ne risulterebbe la creazione di un’ulteriore “soglia”, che disincentiverebbe la crescita dimensionale delle imprese e che si aggiungerebbe alle innumerevoli già esistenti, soprattutto nel campo del lavoro. Con la conseguenza di condannare l’economia nazionale ad una sorta di nanismo, incompatibile con la necessità di conseguire un adeguato livello di crescita economica, indispensabile per affrontare le difficoltà del presente momento. 

Senza trascurare l’eventualità che vi possa essere qualcuno che, giustificando il proprio comportamento con l’irrazionalità della normativa, sia tentato da comportamenti che si sottraggono alla tassazione.
Per cercare di sfuggire alle contraddizioni del sistema fiscale di cui si discute, si è ipotizzato un meccanismo di una sorta di “Flat tax incrementale”, che consisterebbe nel mantenimento della tassazione agevolata nel caso in cui il contribuente aumenti il proprio reddito rispetto al triennio precedente. Si tratta senza dubbio di un sistema interessante, che consentirebbe di risolvere il problema della mancanza di incentivi ad incrementare il proprio reddito nel tempo, consentendo una maggiore soddisfazione al contribuente e contemporaneamente un crescente sviluppo del Pil.

Tuttavia, ne potrebbero conseguire difficoltà applicative, soprattutto se si innestasse una tassa piatta su una aliquota di un’imposta a scaglioni. Forse la strada più semplice potrebbe essere quella di lavorare in senso riduttivo sul livello delle aliquote dei diversi scaglioni, eventualmente consentendo anche di restare nello scaglione dell’anno precedente nel caso di un incremento di reddito nell’anno successivo. 
Tra l’altro, se si intendesse spingere i contribuenti a darsi da fare, probabilmente si potrebbe iniziare col rivedere la modifica alle aliquote Irpef dello scorso anno che, abbassando la base imponibile dell’aliquota massima, ha penalizzato i contribuenti con reddito da 50 a 75mila euro.

*Con questo articolo, Giuseppe Vegas comincia la sua collaborazione da editorialista con Il Messaggero

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