Paolo Balduzzi
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Impatto sul fisco/ Dove portano le proposte dei Grandi sulla web tax

di Paolo Balduzzi
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Martedì 20 Luglio 2021, 00:01

E finalmente tassa sulle multinazionali fu. O no? I Paesi del G20 vorrebbero infatti introdurre al più presto un’imposta sui profitti delle multinazionali. Per molti, e in particolare per chi vi ha partecipato, la memoria non poteva che tornare al G8 di Genova quando, esattamente venti anni fa, i manifestanti sfilavano anche per chiedere interventi di questo tipo. 

Il tema di una distribuzione più equa delle risorse e dei redditi era già molto presente in quella manifestazione: gli eventi più drammatici di questo ventennio - come la guerra in Medioriente, le migrazioni, la crisi economica e la pandemia - non hanno fatto altro che accrescere la consapevolezza di opinione pubblica e legislatori sul tema. Si tratta quindi di una vittoria postuma di quel movimento no global? Nonostante tutto, la risposta non può che essere negativa. Per capirne la ragione, bisogna fare un passo indietro e chiarire i termini dell’accordo. 
La riunione dei ministri delle Finanze e dei Governatori delle Banche Centrali del G20, che ovviamente dà solo indicazioni di orientamento politico ma non può prendere decisioni, ha fatto sua una proposta dell’Ocse sull’introduzione di un’imposta minima sui profitti delle multinazionali e su un accordo per la redistribuzione del gettito tra i Paesi partecipanti. Si tratterebbe, secondo i primi calcoli, di una torta da circa 150 miliardi l’anno che attualmente o sfugge completamente al fisco o, nel migliore dei casi, viene catturata solo in minima parte nei Paesi dove queste multinazionali realizzano i loro incassi. Di questi 150 miliardi, giusto una manciata dovrebbe spettare all’Italia. Non una cifra eclatante, soprattutto se confrontata con quelle del Recovery fund; ma comunque nemmeno trascurabile. 


Cos’è che non convince appieno di questa operazione? Innanzitutto, le multinazionali del 2021 non sono certo quelle del 2001: Facebook, Amazon, Google, etc., che sono il vero obiettivo della nuova imposta, venti anni fa non erano ancora nate oppure erano solo embrionali; a causa del prodotto che vendono e della loro tipologia, dal punto di vista fiscale pongono problemi completamente diversi dalle aziende più tradizionali. 
Quella degli Stati non sembra quindi tanto una lotta per contrastare la disuguaglianza e per promuovere equità e giustizia, quanto piuttosto una battaglia per accaparrarsi una quota di incredibili profitti che nessuno riesce davvero a tassare. Tanto è vero che, insieme all’imposta, l’accordo prevede anche meccanismi di redistribuzione, perché nessuno perda la sua fetta di gettito.
Certamente tutte queste risorse potranno essere usate anche per contrastare la povertà.

Ma al di là di qualche blando riferimento, non c’è alcun impegno formale degli Stati in questo senso. Nessun impegno per promuovere condizioni di lavoro migliori, da un lato; nessun impegno a redistribuire ai Paesi più poveri, dall’altro. Inoltre, vale la pena di chiedersi se questa decisione verrà davvero implementata e, nel caso, se funzionerà. In questi venti anni è forse cambiata la sensibilità politica dei governi e dell’opinione pubblica ma non certo la teoria economica. 


Il numero di Paesi che ha accettato di introdurre questa imposta sui profitti è ampio dal punto di vista di Pil e ricchezza ma ancora limitato dal punto di vista numerico. Nella stessa Europa si contano eccezioni non irrilevanti (Ungheria, Estonia e Irlanda). Gli stessi Paesi che promuovono l’introduzione dell’imposta non concordano sull’aliquota da applicare. Secondo l’Ocse, questa dovrebbe essere almeno del 15%: una misura che potrebbe creare problemi sia a chi attualmente ha imposte sui profitti inferiori sia a chi le ha molto più elevate. E una politica fiscale di questo tipo, per funzionare, necessita di un amplissimo consenso. Altrimenti il rischio di concorrenza fiscale, più o meno sleale, ci sarà sempre: con la conseguenza di continuare a far arricchire, oltre alle suddette multinazionali, i soli – e soliti - paradisi fiscali. 


Del resto, sono anni che si prova, senza grande successo, a far funzionare una web tax: perché questa volta dovrebbe essere diverso? Forse la nuova presidenza americana fornisce ottimismo, ma lo scoglio del Congresso non sarà affatto facile da superare. Problemi analoghi ovviamente riguardano ogni Paese. Per quanto riguarda il nostro, è bene ricordare al legislatore che in autunno ci sarebbe una riforma fiscale in atto: se mai questa imposta verrà davvero introdotta, si dovrebbe utilizzare il gettito per ridurre la pressione fiscale sui redditi dei lavoratori, in particolare quelli del cosiddetto ceto medio. Nonostante i messaggi di soddisfazione e i proclami di tanti leader politici, quindi, a conti fatti la strada per un mondo più equo, almeno dal punto di vista fiscale, è ancora molto lunga.

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