Alberto Brambilla*
Alberto Brambilla*

L'intervento/ Crescita ed energia i ritardi che ora paghiamo

di Alberto Brambilla*
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Mercoledì 16 Novembre 2022, 00:00

Diritti, spesa in crescita e debito: dove stiamo andando? Lo avevamo scritto su queste colonne: chi vincerà le elezioni non avrà diritto alla coppa ma gli toccherà un calice amaro perché è davvero un compito arduo governare un popolo che per molto tempo ha subito gli slogan demagogici della politica. Pur di conquistare maggiori consensi, i partiti, soprattutto negli ultimi anni, hanno spiegato agli italiani che sono titolari di molti diritti negati, che meritano di più e soprattutto gratis. Sicché si è diffusa la convinzione che è un diritto inalienabile avere mutui a tassi modestissimi, case a poco costo, stipendi alti, un cuneo fiscale ridotto, buone pensioni e ristori a pioggia. Sicché, c’è sempre un nobile motivo per fare nuovo e più largo debito: ieri erano le pensioni, poi i mutui, quindi la casa, oggi le bollette. Come attori consumati, i rappresentanti dei partiti si alternano in tv per spiegarci che si batteranno per aiutare famiglie e imprese con ristori e bonus contro il caro bollette. Ed è così che fino ad oggi il virtuoso governo Draghi ha erogato in spesa corrente circa 60 miliardi di euro pur senza scostamenti di bilancio, mentre il nuovo esecutivo ha dichiarato che ne spenderà almeno altri 20: sommati, fanno 80 miliardi distribuiti a pioggia senza aver prodotto un GWH di energia in più. È come se avessimo a disposizione un enorme granaio e anziché risparmiare il grano per seminare ed avere altri raccolti, lo mangiamo tutto. Certo, l’inverno lo passeremo con la pancia piena e il letto caldo ma, come le cicale, il prossimo inverno non avremo più grano e saremo davvero nei guai se la guerra in Ucraina ripartirà a primavera, come nessuno può escludere. Sarà difficile colmare i depositi di gas e rifornire i distributori di benzina, mentre le risorse per nuovi sostegni mancheranno per la difficoltà di fare nuovo debito.

Abbiamo passato dieci anni con un’inflazione praticamente a zero e nonostante gli sforzi della Bce abbiamo continuato a consumare quasi non ci fosse un futuro: così, anziché ridurre il debito lo abbiamo aumentato. Pochi rammentano l’austerity a cavallo del 1973-74 con l’inflazione che toccò il 22%, l’embargo totale del petrolio da parte dell’Opec, le fabbriche chiuse, le domeniche a piedi e le città semi al buio. Nonostante quella lezione, dopo cinquant’anni l’Italia produce solo il 13% di energia rinnovabile compreso l’idroelettrico, che però abbiamo ereditato da chi ci ha preceduto. Inoltre, che la Russia abbia invaso la Georgia nel 2008, la Crimea nel 2014, piegato Aleppo e Damasco nel 2016, a quanti in queste settimane manifestano per la pace tout court, senza capire che va conquistata anche con la forza perché mai è regalata, importa assai poco. Sul fronte energetico ci siamo messi totalmente nelle mani di Putin, asserviti a una Germania che dettava regole all’Europa a misura delle proprie necessità, convinti che ciò ci avrebbe favorito nella gara per l’export.

Dunque, perché stupirsi se oggi un trentenne, cresciuto all’ombra del mantra che tutto è dovuto, scende in piazza pretendendo dallo Stato un reddito (di cittadinanza) senza sentire l’obbligo del proprio contributo lavorativo? Governare diventa perciò un’impresa titanica perché se anche non si volesse fare lo “scostamento di bilancio” (un eufemismo per non dire nuovo debito), l’opposizione di turno continuerà a chiedere soldi pur di piantare bandierine in cerca di consenso.
Si dice che l’“ascensore sociale” in Italia si è da tempo bloccato, intendendo con ciò la scarsità di opportunità lavorative offerte ai giovani. Eppure, proprio in questa fase assistiamo alla nascita di start-up in vari settori ad alta tecnologia che invece dimostrano che l’ascensore funziona, ha solo cambiato percorso e poggia molto più sull’iniziativa dei singoli e sul merito. Già, il merito: è bastato inserirlo come parola d’ordine nella mission di un ministero che apriti cielo. O tempora o mores, direbbero i latini. 
Il risultato è che a partire da quest’anno siamo ultimi nelle classifiche per occupazione totale, femminile e giovanile.

Siamo cioè stati battuti, annuncia Eurostat, anche dalla Grecia che ha un tasso di occupazione totale pari al 60,5% contro il nostro 60,3%, oltre 10 punti sotto la media europea (4 milioni di lavoratori in meno) e quasi 20 punti rispetto al Nord Europa.

Si parla sempre di povertà e disuguaglianze, ma se in Italia i lavoratori sono meno di 23 milioni mentre in Francia, che ha gli stessi nostri abitanti, sono 34 milioni vorrà pur dire qualcosa. Inoltre, in Europa lavora in media il 52-53% della popolazione residente, in Italia meno del 38%: la nostra povertà è tutta in queste cifre. Ed è umiliante constatare che a fronte di tanta povertà esibita, l’Italia primeggia nel gioco d’azzardo: tra scommesse legali e illegali spendiamo oltre 130 miliardi, più dell’intera spesa sanitaria. E siamo anche ultimi per tasso di produttività: negli anni recenti i paesi concorrenti sono mediamente cresciuti dello 0,8% l’anno, l’Italia dello 0,1%. É così che in trent’anni da noi il potere d’acquisto è diminuito del 2,9% mentre nell’Est Europa è raddoppiato, in Svezia è cresciuto del 63%, in Danimarca del 39% e in Germania, Finlandia e Francia poco sotto il 33%. E dunque, siamo sicuri che spendendo circa 150 miliardi l’anno in assistenza sociale favoriamo lo sviluppo del Paese? A nessuno viene il dubbio che così facendo si aumenta il numero dei giovani che non studiano e non lavorano (sono oltre 3,1 milioni, e qui siamo primi in classifica in Europa e con il 25% distanziamo di 11 punti la media Ue) e si incrementa la quantità di lavoro nero? Riflettete, gente, riflettete.


*Presidente Itinerari Previdenziali

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