Paolo Balduzzi e Osvaldo De Paolini

Effetto inflazione / Gli stipendi e l’eterna fuga del costo della vita

Effetto inflazione / Gli stipendi e l’eterna fuga del costo della vita
di Paolo Balduzzi e Osvaldo De Paolini
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Mercoledì 1 Giugno 2022, 00:10 - Ultimo aggiornamento: 13:02

Gli Anni Ottanta non passano mai davvero di moda. Lo si vede nei vestiti, naturalmente; e lo si vede anche nel cinema. Lo si vede, infine e forse un po’ più a sorpresa, anche nel dibattito economico. Inflazione, spirale prezzi-salari, scala mobile (espressione in verità mai pronunciata apertamente), debito pubblico: sono tante le similitudini tra i primi Anni Venti di questo secolo e quel decennio sempre così affascinante del secolo scorso. Il tema del lavoro, negli ultimi mesi, è quello più caldo. Da un lato, l’apparente scarsa attrattività dei lavori più tradizionali: un argomento già affrontato con dovizia di particolari anche da Il Messaggero. Dall’altro, le parole di ieri del governatore Ignazio Visco nel tradizionale discorso di fine maggio che presenta il “Rapporto annuale della Banca d’Italia”. Come comportarsi di fronte all’inflazione? La ricetta tradizionale, in voga appunto fino alla seconda metà degli anni Ottanta, era quella di ancorare i salari ai prezzi, per difenderne il potere d’acquisto. Una ricetta che però si è rivelata sbagliata ed è stata quindi abbandonata. Salvo essere ripresa proprio in queste settimane da autorevoli esponenti politici e sindacali, forse più in cerca di consenso che di una vera soluzione.


Cosa c’è che non va in questo meccanismo? L’aumento dei salari per rincorrere i prezzi è spiegabile in maniera simile al famoso paradosso di Zenone: Achille (i salari) non raggiungerà mai la tartaruga (i prezzi) perché, prima di raggiungerla, dovrà occuparne la posizione. Ma nel frattempo la tartaruga si sarà spostata ancora un po’. La dinamica economica è ancora più evidente di quella filosofica: ad ogni passo, è Achille stesso a spingere un po’ più in là la tartaruga. L’aumento dei salari porta a un aumento dei costi di produzione che, a sua volta, implica un aumento dei prezzi; il che a sua volta richiederà un nuovo aumento dei salari e così via, ricominciando questo ciclo, spesso chiamato spirale, tra le due grandezze. Una rincorsa che non ha effetti reali: il potere d’acquisto dei lavoratori non aumenta. Non solo: coloro che sono meno protetti sul versante della contrattazione, rimarranno stritolati da prezzi alle stelle e stipendi bloccati. Un’operazione che non solo crea problemi sul lato dell’efficienza, quindi, ma anche su quello dell’equità. Il governatore Visco ammette che sia possibile aumentare gli stipendi ma solo con misure una tantum finanziate a debito, vale a dire con la sterilizzazione di alcuni prezzi, come quelli dei beni energetici. In realtà, si può e si deve andare anche oltre. Le ricette applicabili sono almeno due. Hanno il pregio di non essere necessariamente temporanee. Anzi, hanno l’ambizione di essere (o poter diventare) strutturali.


La prima è l’utilizzo della leva fiscale. Invece di concentrarsi sull’effetto di una tassa straordinaria, tale è l’espressione usata dal governatore per definire l’inflazione, meglio guardare al ruolo delle imposte ordinarie - nello specifico il cuneo fiscale - che ogni mese riducono strutturalmente il potere d’acquisto dei lavoratori e distorcono le scelte delle aziende.

La riduzione del cuneo potrebbe anche essere finanziata, in via straordinaria, ricorrendo al debito. Ma è chiaro che questa misura non potrà mai diventare strutturale, se non si troveranno le risorse all’interno del bilancio stesso. Non certo ricorrendo a nuove imposte bensì attraverso risparmi di spesa. I quali, si sa, possono essere dolorosi: varrà quindi la pena di ricorrere, in maniera regolare e coerente, all’attività di revisione della spesa stessa. Un suggerimento: si parta dalle cosiddette spese fiscali, la selva di deduzioni e detrazioni spesso più collegate a benefici e rendite di parte che a veri e propri disegni strategici da parte del legislatore.


La seconda ricetta è quella della produttività, l’unico vero segreto per aumentare i salari senza intaccare i costi di produzione. In termini generali, e fatte salve le dovute eccezioni, il lavoro in Italia è scarsamente produttivo; segno non tanto, e non solo, di competenze mancanti quanto di un loro scorretto utilizzo. Come fare? Anzitutto, partendo dall’istruzione secondaria e terziaria e investendo, in entrambi i casi, sul miglioramento dei percorsi professionali e professionalizzanti, magari coinvolgendo maggiormente aziende ed enti decentrati che operano sul territorio e che ben conoscono le esigenze e la qualità del tessuto produttivo locale. In seconda battuta, lottando contro l’abbandono scolastico e valorizzando gli studenti migliori. Ancora oggi il 13,5% di coloro che hanno tra i 18 e i 24 anni non ha terminato il corso di studi che aveva intrapreso. Molti di loro si trovano al Sud. Si tratta di uno dei peggiori risultati in Europa.


Sul lato opposto, continua l’emigrazione di molti laureati brillanti che preferiscono portare le loro competenze avanzate all’estero. In aggiunta all’ormai noto, e ciononostante incompreso, fenomeno dell’invecchiamento della popolazione, ciò spiega bene la staticità di produttività e salari nel paese negli ultimi trent’anni. Terzo, aumentando l’efficienza degli impianti di produzione. Fortunatamente, le risorse per questo ci sono già, almeno in parte: questo infatti, è, o dovrebbe essere, l’obiettivo del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Maggiore efficienza degli impianti non significa solo maggiore produttività ma anche maggiore autonomia energetica e ricorso a fonti rinnovabili. Una soluzione che, soprattutto in periodi come questo, basterebbe a sterilizzare le bollette e a calmierare l’inflazione.


Infine, da non dimenticare, la produttività si migliora rendendo più efficiente il sistema economico e legale: in altre parole, riformando la macchina burocratica. Certo, si tratta di ricette che richiedono impegno, costanza, lungimiranza e un po’ di sacrificio. Tutte qualità che solitamente non attirano grandi consensi. Gli anni ’80 ci hanno anche insegnato che l’indipendenza della Banca centrale è necessaria per rendere credibile la politica monetaria. Purtroppo, oltre tremila anni dopo la nascita della democrazia, non è stato ancora inventato un meccanismo capace di rendere responsabili quei politici perennemente in campagna elettorale.

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