Paolo Balduzzi
Paolo Balduzzi

Il monito di Draghi/La visione che serve per salvare l’economia

Mario Draghi
di Paolo Balduzzi
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Mercoledì 16 Dicembre 2020, 00:24 - Ultimo aggiornamento: 23:59

È il paradosso dei paradossi: la fine della crisi sanitaria fa già più paura della crisi stessa. Non usa queste esatte parole Mario Draghi nel presentare il rapporto 2020 del think tank noto come G30; ma il suo monito, riferito naturalmente al mondo intero e non solo all’Italia, è un chiaro segnale di allarme. 
Le imprese non falliscono; o meglio falliscono di meno che nel 2019; l’occupazione a tempo indeterminato tiene, nonostante tutto. E questo perché, sin dall’inizio della pandemia, gli Stati nazionali hanno curato il sistema economico con dosi massicce di sussidi e regolamentazioni per proteggere tutte le categorie che si potevano proteggere. 


L’antibiotico che i governi mondiali stanno usando per proteggere il sistema economico è alimentato a debito pubblico. Ma, come tutti gli antibiotici, un suo uso continuativo ed esclusivo porta a una progressiva perdita di efficacia e indebolimento del sistema stesso. 


Nell’attesa che finisca la pandemia, quindi, bisogna cominciare a preoccuparsi dei sistemi immunitari, cioè della capacità del sistema di far fronte da solo alla crisi, di rimettersi gradualmente a correre una volta che la malattia sarà conclusa. In caso contrario, ci troveremo davanti a un precipizio, senza possibilità di fuga. 

È per questo che la fine della crisi potrebbe fare più paura della crisi stessa: perché, e qui mi riferisco proprio al nostro Paese, la paura è che tutto si stia facendo tranne che lavorare sul sistema immunitario.
Cosa succederà, per esempio, quando finirà il divieto di licenziare i dipendenti? Quale ecatombe occupazionale ci attende se la ripartenza post pandemia troverà terreno poco fertile all’attività economica? Il riferimento al cortocircuito tra banche, credito e piccola impresa sembra, tristemente, calzare a pennello proprio per il nostro Paese. 


Le piccole imprese sono di fatto la spina dorsale dell’attività industriale dell’Italia, che non ha mai davvero avuto la vocazione di Paese caratterizzato dalla grande industria privata. E la politica industriale degli ultimi anni, e financo delle ultime settimane, non fa che confermare questa tendenza. Il mito del distretto industriale che guida il miracolo italiano si perde ormai nella notte dei tempi. Da decenni, succube della burocrazia, dell’instabilità politica, della totale assenza di programmazione industriale, ma anche del proprio adagiarsi su posizioni di rendita, il sistema industriale italiano è in declino costante. 


La sfida a guadagnare in produttività, unico vero antidoto agli svantaggi della competizione globale, è stata persa, se non addirittura nemmeno giocata.

Abbiamo l’occasione unica di investire centinaia di miliardi di euro per adeguare il sistema Paese. Avremmo dovuto farlo ormai anni fa; lo possiamo fare adesso, addirittura con soldi regalati o a un costo inferiore di quanto avremmo mai potuto sperare. 


Mentre Draghi e Rajan illustrano le sfide che attendono le economie alla fine della crisi, una parte del mondo decide di ascoltare con attenzione. Un’altra parte del mondo, al contrario, sembra non accorgersi di nulla, tutta impegnata ad assalire la diligenza dei fondi europei. Quando servirebbe una visione cosmica e unitaria del Paese, ecco spuntare una miriade di interessi particolari; quando dovrebbe emergere una visione di lungo periodo, ecco puntuale la minaccia di una crisi di governo; quando servirebbero polso fermo, piede sicuro e barra diritta, ecco un governo che contraddice se stesso e che non sa nemmeno decidere se, quando e come chiudere l’Italia in vista delle festività natalizie. 


Il rapporto del G30 auspica collaborazioni tra settore pubblico e settore privato; mi permetto di aggiungere, tuttavia, che queste partnership avrebbero successo solo sotto determinate condizioni. La prima: che ci sia stabilità politica. Il numero di governi degli ultimi dieci anni (sette!) non gioca certo a nostro favore. La seconda: che la partnership sia improntata alla collaborazione e non al controllo.


In passato, la presenza del settore pubblico nell’industria non è stata certo secondaria; tuttavia, questa presenza è stata fin troppo spesso orientata alla massimizzazione del potere elettorale invece che alla profittabilità e alla soddisfazione di tutti gli stakeholder coinvolti. La terza, e ultima: che la collaborazione serva a dividere le imprese che hanno davvero una potenzialità di crescita e sviluppo da quelle che, invece, sarà meglio avviare a un fallimento. 


Anche in questo caso, la storia italiana non testimonia grandi esempi virtuosi. La crisi ha colpito tutto il mondo alla stessa maniera: la capacità di uscirne dipenderà dalla qualità della classe politica e dalla volontà dei cittadini. La responsabilità, anche di ascoltare e di capire i moniti di grandi personalità come Mario Draghi, sta in ognuno di noi.

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