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Trend da invertire/Quale ruolo per i Comuni nel piano di ripartenza

Articolo riservato agli abbonati
25 Gennaio 2021 (Lettura 5 minuti)

La più potente spiegazione delle forze che portano le città a nascere e poi a scomparire - proprio come un qualsiasi organismo vivente - è, ancora, quella che valse a Paul Krugman, del Mit di Boston, il Premio Nobel per l’Economia nel 2008: la storia dei Comuni può essere interpretata come una parabola nella quale, prima, crescono perché le persone trovano conveniente aggregarsi in quanto condividono informazioni e diventano più produttive; e, successivamente, declinano quando questi benefici vengono sopravanzati dai costi di congestione. È evidente che saranno radicali gli effetti della pandemia sui prezzi delle case e sulla stessa sopravvivenza di molti dei luoghi che fanno la storia di un Paese come l’Italia. E dovrebbero essere le conclusioni di Krugman, il punto di partenza di chi - in Italia - volesse usare proprio il luogo nel quale lo Stato e i cittadini si incontrano fisicamente, per dare sostanza ad un Recovery Plan al quale manca, ancora, sia visione che pragmatismo. 

Non è vero, come dicono nei convegni sulle “smart city”, che le città siano inevitabilmente attese da “sorti magnifiche e progressive”. Non è vero che sia inarrestabile il processo che le porterà a diventare concentrazioni sempre più grandi di problemi da risolvere e soluzioni. È in diminuzione negli ultimi vent’anni, la quota di popolazione che, in Italia e in Europa,  vive nelle città con più di un milione di abitanti (fanno eccezione Vienna e, fino a qualche tempo fa, Londra e Milano) e tale processo è fortemente accelerato da una pandemia che impone la “distanza sociale”. Neppure è vero, però, che la pandemia che ha, temporaneamente, desertificato città come New York (proprio come nei film di fantascienza), sia destinata a riportare nei borghi professionisti in grado di fuggire definitivamente dall’ufficio.

Ciò che conta è che città per città - a partire da Roma - possa esserci un’idea di quale futuro si voglia abitare; incoraggiare ogni luogo a immaginare come vuole posizionarsi rispetto ai propri simili e quale patto proporre ai propri cittadini; quali investimenti e che coalizioni di interessi pubblici e privati è necessario mobilitare per realizzare quel progetto. Lo spazio per concepire strategie di questo genere non sembra esserci stato finora nella elaborazione del programma di sviluppo più importante della storia della Repubblica. E, del resto, che una città possa immaginare il futuro sembra escluso dai vincoli che inchiodano il sindaco ad una disperata inerzia e dai tempi che impone la Commissione Europea.

Sono ancora da definire, in realtà, dettagli - assolutamente decisivi - del documento sul quale si stanno consumando crisi di governo. La versione da 210 miliardi approvata dal Consiglio dei Ministri il 13 gennaio scorso, non contiene ancora gli obiettivi e le tempistiche (“milestones”) che la Commissione Europea si aspetta, e neppure è chiaro quale istituzione sarà responsabile dei diversi interventi. Un’anticipazione parziale di queste fondamentali informazioni si trovano, però, nell’“allegato schede progetto” del 29 dicembre (anche se la distribuzione delle risorse tra le diverse missioni è stata cambiata dal confronto all’interno di una maggioranza che si è poi squagliata). 

In realtà i Comuni, le città metropolitane e l’Anci sono presenti dappertutto: sono tra i soggetti attuatori citati da 4 delle 6 missioni del Piano e, nello specifico, tra i soggetti attuatori di 26 progetti che mobilitano 36 dei 210 miliardi. Sono i Comuni (o le città metropolitane) a dover realizzare i piani sull’economia circolare, sul “turismo lento” e su numerosi progetti di assistenza innovativa a fragilità che si moltiplicano. I due interventi più consistenti - quello di conversione ecologica del trasporto pubblico locale e di risanamento degli edifici scolastici (valgono un terzo dei 36 miliardi) - allocano al Pnrr interventi che, per due terzi, erano stati già finanziati. Non si capisce, poi, perché problemi vicinissimi alla quotidianità di milioni di elettori, come quello della ricostruzione di una Capitale a pezzi e delle metropolitane che sono un biglietto per entrare nella modernità non entrano nel Piano (mentre c’è chi continua a favoleggiare di ponti sullo Stretto). Sempre, infine, le istituzioni proponenti sono ministeri (tranne che per i progetti del Piano Nazionale per l’Energia e il Clima) e i Comuni attuano.

Questa rapida ricostruzione sembra dire con evidenza che si riconosce agli enti locali un ruolo ineludibile per “scaricare a terra” (termine non elegante ma efficace) un progetto di trasformazione del Paese e, che, tuttavia, i Comuni rischiano di essere il punto terminale, anzi il terreno su cui la programmazione arriva (se arriva). Marginale ne è il ruolo che essi hanno nella definizione di una strategia (che, peraltro, non è ancora chiara).
Questo è un errore grave, anche se è il frutto di quello che Massimo Cacciari ha definito “crisi di uno Stato” (più che crisi di un governo). E tale crisi parte proprio dallo spreco di risorse, di talenti, di energie che possono arrivare da quelli che, retoricamente, chiamiamo territori. Il Pnrr è, anche e soprattutto, l’occasione per ridefinire i processi decisionali di una costruzione istituzionale che si sta sgretolando di fronte ad un nuovo secolo. E, dunque, l’occasione per innescare quelle che la Commissione chiama “riforme” e che, forse, noi dovremmo chiamare trasformazioni.

Nel caso dei Comuni è evidente che essi devono avere più risorse finanziarie (il grafico pubblicato in questa pagina dice che, invece, ci siamo mossi al contrario) e, soprattutto, competenze di pianificazione strategica che mancano. Altresì è chiaro che non regge più un sistema nel quale 5000 degli 8000 Comuni italiani ha meno di 5000 abitanti. Accorpamenti progressivamente obbligatori convengono agli stessi sindaci per dargli economie di scala minima. La stessa capacità di rappresentanza dei Comuni va riorganizzata: un’Anci che organizzi una risposta alla sfida che Krugman sistematizza, deve fare da organizzatore di conoscenza sui grandi trend di innovazione che fanno il futuro. Anche a livello europeo, infine, le città devono poter avere una rappresentanza che non può essere più condivisa, ipocritamente, con quella delle Regioni (nello stesso “comitato”).

Nel 2030, l’Italia potrebbe avere meno abitanti della Spagna che ci sta raggiungendo, mentre trent’anni fa, ne avevamo più della Francia che è oggi lontanissima. La sfida la stanno perdendo quasi tutti i Comuni italiani e la pandemia ha tolto certezze a tutti. Invertire un declino che può diventare tracollo, è oggi un progetto politico che parte da sindaci costretti ad un’innovazione che è il prodotto della necessità. 
www.thinktank.vision

Ultimo aggiornamento: 26 Gennaio, 00:13 © RIPRODUZIONE RISERVATA
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