Francesco Grillo
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Le cinque sfide/ La politica della Bce e gli effetti sull’Italia

Le cinque sfide/ La politica della Bce e gli effetti sull’Italia
di Francesco Grillo
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Mercoledì 10 Febbraio 2021, 00:08 - Ultimo aggiornamento: 00:29

Cosa può aver convinto un uomo come Mario Draghi, abituato alla razionalità di Franco Modigliani e di Robert Solow, a confrontarsi con un ambiente politico che a molti di noi sembra, a volte, aver perso l’equilibrio? La sensazione è che potrebbe essere stata l’idea di aver prodotto – utilizzando l’unica medicina possibile – un pericoloso effetto collaterale. Un effetto che gli economisti monetari chiamano “azzardo morale”. Deve essere stato questo il cruccio che ha accompagnato il banchiere centrale che nel luglio 2012 annunciò a Londra che avrebbe salvato – a qualsiasi costo – la moneta unica europea dalla sua peggiore crisi.

L’azzardo morale è l’effetto indesiderato di una politica che si ponga l’obiettivo di salvare un sistema iniettandovi moneta: abbassando i costi del debito si rischia di ridurre, infatti, anche il costo delle mancate riforme di cui quel debitore ha bisogno. Ed è forse questa preoccupazione il motivo che deve aver spinto Draghi ad accettare una sfida così difficile. Molto più difficile di quella che raccolse con poche, taglienti parole otto anni fa nel cuore della City.


La sfida per Draghi è politica, morale, ma, in un certo senso, anche intellettuale: c’è qualcosa che deve essere cambiato, se l’economia reale continua a non rispondere agli stimoli della politica monetaria, come dovrebbe secondo la teoria. 


In otto anni, se anche fermiamo la nostra analisi al dicembre del 2019 (prima, dunque, di una pandemia che ha fatto saltare tutti gli schemi), l’Italia, massima beneficiaria degli acquisti della Banca Centrale Europea, è rimasta totalmente ferma. Dal 2012, il Pil italiano è cresciuto – secondo Eurostat – dello 0,1%: nell’area euro la crescita è stata 100 volte più elevata (10,3%) e solo la Grecia ha fatto peggio. Peggio è andata, però, se consideriamo quello che è forse l’indicatore più importante: la produttività che dipende dalla conoscenza che incorporo nel lavoro e che è addirittura diminuita (come dice il grafico che accompagna l’articolo). 


Lo stesso rapporto debito pubblico sul Pil, già a fine 2019 (e prima dell’esplosione degli ultimi dodici mesi), era al 134,8%, di quasi venti punti superiore al valore che portò alle fiammate di spread che Draghi spense. Le riforme, poi, sono al palo. Il costo di adempimento degli obblighi fiscali è una misura della complessità di un sistema tributario che è, come ha recentemente ricordato il Presidente della Corte dei Conti, Guido Carlino, il miglior alleato dell’evasione: nel 2011 l’Italia era al 128esimo posto su 190 Paesi e si trova, ancora, nella stessa posizione nel rapporto della Banca Mondiale per il 2020, lontana dall’ultimo dei Paesi dell’Unione. L’inflazione nell’area euro, infine, è, dal 2012, quasi costantemente sotto il 2%, nonostante il fatto che, tecnicamente, fosse proprio questo l’obiettivo dell’intervento della Bce. 


Draghi ha salvato l’unità dell’area euro e l’Italia e però gli effetti che il bazooka ha avuto sull’economia reale non sono stati quelli che, probabilmente, lo stesso Draghi si aspettava. C’è qualcosa nella relazione tra masse monetarie, inflazione, tassi di interesse, produzione che è cambiato e cinque sembrano le priorità per far ripartire una macchina inceppata.
La prima è, ovviamente, riscrivere il “Recovery Plan”.

Seguendo, del resto, le linee guida della Commissione. Di ogni investimento va calcolato (e l’ultima versione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, questo non lo fa) l’impatto su almeno tre fondamentali variabili: produttività, occupazione, riduzione delle emissioni di Co2 che stanno preparando una catastrofe persino peggiore di quella vissuta nel 2020. Tale logica va, peraltro, subito estesa anche ai fondi strutturali che valgono quasi quanto Next Generation Eu: oscuro ma importante è in questo senso il ruolo del prossimo ministro per il Sud.

In secondo luogo, c’è la scuola e l’università. Fu questo il pezzo più bello della lectio magistralis tenuta da Draghi nell’agosto dello scorso anno. Debito sicuramente buono è quello che serve ad investire nel capitale umano dal quale direttamente dipende la capacità di crescita del sistema nel lungo periodo. 
Le riforme, poi, ed è, forse, il terreno più lontano da quello praticato per anni dai banchieri e che non possono essere ridotte ad un qualche buon “manuale” perché devono tener conto di una trasformazione tecnologica che sta cambiando tutto. Lo stesso ritorno (“Pay back”) di ogni investimento è abilitato da una riorganizzazione della macchina dello Stato e delle regole che disciplinano i mercati. Trasformare, ad esempio, le scuole in istituti a tempo pieno (obiettivo questo timidamente perseguito dall’ultima versione del Pnrr) non ha senso se non portiamo a compimento quell’autonomia senza la quale organizzazioni così articolate non possono essere governate.


Tra le riforme, poi, ed è forse il quarto punto che Draghi non potrà non vedere sulla strada stretta che va percorsa, ci sono anche più complesse revisioni istituzionali. È vero che è lo stesso Presidente della Repubblica a raccomandare un governo tecnico e, tuttavia, è evidente che un esecutivo che non ha la forza di un consenso costruito tra le persone, non può avere quell’energia che serve per realizzare un progetto che riguarda tutti. È evidente che un cambiamento profondo non è possibile se continuiamo a cambiare governi e ministri titolari dei dossier ogni anno. E di riforme, peraltro, ha bisogno anche l’Europa che – proprio durante la pandemia – ha rilevato quale possa essere il costo di integrazioni parziali: persino sulla disponibilità dei vaccini (come rileva l’Economist di questa settimana) pesa un’Unione rimasta sospesa tra aspettative retoriche e poteri concreti.


Governare un’economia ed un Paese reale presenta un livello di complessità assai elevato e pone, infine, il problema di costruire una classe dirigente (non bastano certo venti ministri anche se sono un buon inizio) capace di concepire ed immaginare un progetto che non può vivere senza arrivare nelle cento città d’Italia, prescindendo da periodi lunghi e senza fare “politica” che è costruzione di patti sociali che si sono logorati. Mario Draghi riporta nella coscienza di milioni di giovani e di genitori, l’idea dell’importanza assoluta dello studio. E propone un rapporto diverso con quello che è rimasto del “potere”. Su questo esempio va costruito un progetto per il quale non bastano le equazioni di Solow che hanno un’eleganza straordinaria e alle quali, però, variabili tecnologiche nuove hanno tolto efficacia. È una sfida intellettuale di grande fascino quella che aspetta Draghi e abbiamo il bisogno assoluto di vincerla nelle quotidianità di tutti.


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