Riccardo Sessa

Donbass e Crimea/ I russi non sfondano, accordo più lontano

di Riccardo Sessa
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Venerdì 1 Aprile 2022, 00:05

«Presidente, la chiamo per parlare di pace», ha detto Draghi a Putin l’altro ieri. E Putin lo ha ascoltato, ma la pace sembra ancora lontana. La lunga e molto dettagliata conferenza del premier Draghi ieri davanti alla stampa estera ha consentito di acquisire informazioni di primissimo piano non solo sul colloquio telefonico tra lui e Putin ma, più in generale, sul negoziato in corso, sulle prospettive diplomatiche e della guerra e - last, but not least - sul ruolo che l’Italia, ritornata tra i protagonisti, potrebbe svolgere. Partendo da quanto dichiarato da Draghi, e incrociando le sue dichiarazioni con le informazioni che giungono dal terreno, cerchiamo di fare un punto sui possibili sviluppi dal punto di vista negoziale. Partendo da quest’ultimo tema, che è poi quello che sta più a cuore di tutti perché ne va della fine delle operazioni militari e del futuro dell’Ucraina, e non solo, la domanda che tutti si pongono è se finalmente siamo in presenza di una svolta e, di conseguenza, se si inizia a intravedere una luce in fondo al tunnel.

A nostro avviso ci sono senz’altro dei fattori positivi, ma più che ad una svolta siamo ancora solo all’inizio di una possibile svolta. Ci sono dei dati obiettivi, il primo tra tutti è che le due delegazioni abbiano ripreso ad incontrarsi e che gli incontri avvengano sotto l’egida e l’ospitalità della Turchia e del presidente Erdogan in prima persona, le cui buone carte in mano come facilitatore del negoziato tra la Russia e l’Ucraina sono state sin da subito riconosciute da tanti e in primis dai due interessati. A prescindere dall’atmosfera che caratterizza le riunioni (i consigli, tra gli altri, a non consumare cibi e bevande offerte dai russi), o la composizione delle delegazioni (è sempre poco chiaro da quale parte debba essere considerato Abramovich), non sono ben definiti i punti sui quali si starebbe veramente negoziando nonostante che ogni tanto escano conferme da una parte e dall’altra di una raggiunta intesa di massima su uno di quei presunti punti. In realtà, il problema è di capire se un vero e proprio negoziato sia iniziato o piuttosto se si tratti ancora, almeno per una parte, di incontri più o meno di facciata condizionati dall’andamento delle operazioni militari.

Non è necessario essere un esperto per immaginare quali siano gli obiettivi minimi e massimi – medi, in realtà – per Russia e Ucraina. Medi perché si dovrà necessariamente trovare un punto di compromesso che faccia salve le esigenze, oltre che la faccia, di Putin e Zelensky. Il problema è tutto lì, e sappiamo che non è da poco, e finché non c’è uno spiraglio di negoziato serio non si può purtroppo fare a meno di combattere. Putin deve ottenere qualcosa di concretamente sostenibile e presentabile, come minimo sulla Crimea e sul Donbass (a proposito dei quali è tuttora in atto un vero e proprio tiro alla fune), sostanzialmente per lui e per la comunità internazionale, e non certo per la sua opinione pubblica interna che – ahimè – non esiste.

Putin spera di poter annunciare il 9 maggio, giorno della Vittoria della Russia contro il III Reich (ecco il significato di quella data che circola) la vittoria per la denazificazione dell’Ucraina. Oggi scommettiamo poco che ci possa riuscire. D’altronde, dai commenti che Putin ha fatto a Draghi si è capito che un’intesa è effettivamente ancora lontana, e lo ha lasciato intendere l’inossidabile ministro degli Esteri Lavrov affermando che gli ucraini hanno capito che su Crimea e Donbass le questioni «sono già state risolte». Più onesto il portavoce del Cremlino, che ha parlato di «nessuna svolta», come conferma la ripresa delle operazioni militari da parte russa con movimenti lungo direttrici che portano alla Bielorussia dove le truppe russe potrebbero rifornirsi, riorganizzarsi e riprendere i combattimenti di quella che, comunque la si esamini, appare sempre di più una “strana guerra”.

Il punto cruciale, tuttavia, è quello della neutralità dell’Ucraina. Apparentemente un’intesa di massima sarebbe stata raggiunta con il consenso ucraino, ma in realtà i problemi sul tappeto sarebbero ancora enormi, e non è difficile capire il perché. L’Ucraina rinuncerebbe per sempre all’adesione alla Nato (ipotesi che peraltro negli ultimi anni aveva perso di attualità) in cambio di un rapido ingresso nell’Unione Europea e soprattutto di una neutralità riconosciuta sul piano internazionale con garanzie di sicurezza da parte di un certo numero di Stati.

Espressa in questi termini la questione sembra semplice. In realtà non lo è affatto, a prescindere dal modello di neutralità che verrà prescelto avendo sostanzialmente due modelli di riferimento, quello austriaco e quello finlandese, a seconda che prevalga, come vogliono gli ucraini, la possibilità per Kiev di dotarsi di un minimo di forze armate più significative, come nel caso della Finlandia. Il punto più delicato sono le garanzie che richiedono gli ucraini anche sulla base di alcune precedenti intese che non hanno funzionato. La prima, e anche la più importante, è il Memorandum di Budapest del 5 dicembre ‘94 tra Russia, Ucraina, Stati Uniti e Regno Unito, al quale aderirono poi anche la Cina e la Francia, con il quale l’Ucraina accettò una neutralità, aderì al Trattato di Non Proliferazione e consegnò alla Russia, su pressione degli Stati Uniti, un ingente arsenale nucleare.

La Russia, è bene ricordarlo, si impegnò a garantire quella neutralità e rispettare la sovranità ucraina. Abbiamo visto come andò a finire in Crimea nel 2014 e da ultimo il 24 febbraio scorso. Ci furono poi due Protocolli firmati a Minsk, il primo il 5 settembre 2014 sotto l’egida dell’Osce tra Ucraina, Russia e le due Repubbliche di Doneck e di Lugansk, protocollo mai rispettato, e il secondo l’11 febbraio 2015 tra Ucraina, Russia, Francia e Germania, anche questo senza seguiti. Si capisce quindi perché oggi Kiev stia disperatamente cercando di ottenere che la sua neutralità venga questa volta garantita in maniera più forte e più precisa da un certo numero di Stati, tra i quali potrebbero figurare Stati Uniti, Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Germania, Canada, Israele, Turchia e Italia. Questo aspetto porta a due osservazioni.

La prima è che il negoziato russo-ucraino, quando partirà seriamente, finirà per concludersi, per assurdo che possa sembrare, con una situazione sul terreno poco dissimile da quella di partenza, che il negoziato fotograferà e formalizzerà. Ci riferiamo soprattutto alla Crimea e al Donbass, dove occorrerà tutta l’abilità di sperimentati diplomatici per mostrare i risultati ottenuti, malgrado migliaia di vittime civili e militari. La seconda, di cui al momento è difficile immaginare una seria raffigurazione al di là delle dichiarazioni, riguarda le garanzie che gli Stati prescelti dovranno fornire tenendo presente che si farebbe riferimento al capitolo VII della carta delle Nazioni Unite, arrivando cioè a ipotizzare anche l’impiego di forze militari a difesa dell’Ucraina. Poiché già si parla di una “piccola Nato” con riferimento all’ombrello dell’articolo 5, non è difficile immaginare quali potranno essere le reazioni di Mosca, nonché le difficoltà per i Paesi garanti. A conferma dei dubbi su quanto possa essere vicina una soluzione all’attuale guerra.

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